di Piero Campanile
1) L’oblio dell’ambiente e l’unica questione ricorrente
Nell’attuale frangente storico, funestato dai molteplici scenari di guerra che ormai strutturalmente accompagnano le contraddizioni e le convulsioni del sistema capitalistico-imperiale a guida USA -la cui centralità e leadership è più che mai messa in discussione nelle regioni del mondo non coincidenti con l’occidente collettivo- l’interesse per lo stato dell’ambiente e per le molteplici crisi ecologiche è di fatto marginalizzato, se non addirittura rimosso. Ma fino a ieri (e nulla ci lascia presagire un cambio di passo nell’immediato futuro) il dibattito ecologico è stato soggetto a un processo di semplificazione e allo stesso tempo di comprensibile proliferazione di discorsi, tale da rappresentare in maniera esemplare una assoluta babele comunicativa. La semplificazione, evidente a chiunque si sia anche in misura minima interessato a questioni ambientali, sta nella riduzione della complessità e della portata di queste ultime al solo tema dell’alterazione climatica, unico problema onnipresente nella comunicazione mediatica degli ultimi decenni. In questo modo sono aggirate e di fatto rimosse questioni annose e rilevantissime come l’avvelenamento di migliaia di corsi d’acqua, l’inquinamento dei mari, la diffusione incontrollata di plastiche (generalmente in forma di microparticelle) nelle acque e nei suoli, l’inquinamento dell’aria dovuto a tutte le tipologie di emissione di gas e polveri sottili provenienti dagli apparati industriali, dagli impianti di riscaldamento e dalla mobilità globale, la congestione delle metropoli, la distruzione delle foreste, la contaminazione dei sottosuoli imbottiti di ogni sorta di rifiuti tossici, la riduzione della fertilità dei terreni, l’assottigliamento dello strato di permafrost, la progressiva e drammatica riduzione della biodiversità.
E non è affatto un caso che di questi spinosissimi temi, la cui dimensione emergenziale è facilmente constatabile e dunque innegabile, non vi sia quasi traccia nella comunicazione pubblica, la quale è stata interamente monopolizzata dalla questione climatica.
Quest’ultima, infatti, benché sia in fin dei conti una conseguenza del moltiplicarsi e intrecciarsi dei disastri appena elencati, ha mostrato già da molti anni l’attitudine a favorire una polarizzazione delle posizioni a riguardo e, come già detto, una proliferazione dei discorsi e delle tesi a sostegno delle posizioni in campo. Ciò è dovuto, da un lato alla complessità epistemologica di una materia come le alterazioni climatiche e le connesse variazioni metereologiche, dall’altro ai giganteschi interessi in gioco, rappresentati prioritariamente dalle lobby dei combustibili fossili e dei veicoli a motore, protagoniste della scena economica mondiale dai tempi della seconda rivoluzione industriale e abituate da più di un secolo a governare in maniera indiretta o diretta (come testimoniato dalle presidenze dei Bush padre e figlio) e decidere le sorti del mondo. Detto in altri termini, se davanti a fenomeni come quelli della distruzione delle foreste, dell’interramento di rifiuti tossici o della presenza massiccia di plastica nei mari nessuno può negare la loro entità effettiva e misurabile, riguardo alla valutazione del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze (percepito da molti come un dramma definitivo nella sua potenziale fatalità) i molti parametri in gioco, i confronti con altri periodi storico-geologici, le eventuali difformità nelle metodologie di rilevazione e nei risultati ottenuti, rendono particolarmente complesso uno dei compiti che le scienze naturali sono chiamate ad assolvere: prevedere il futuro in maniera attendibile.
2) Negazionismi e interessi in gioco
In questa materia di per sé intricata, dunque, fino a pochi anni fa hanno avuto facile gioco le influenze e intromissioni proprio di quei poteri economici potenzialmente minacciati da quarant’anni di fosche previsioni da parte di naturalisti, fisici e geologi in tutto il mondo. A queste hanno infatti risposto non molti scienziati le cui ricerche sono state sponsorizzate però proprio dalle lobby industriali e politiche legate al settore dei combustibili fossili*, che in questo modo sono riuscite a frenare quel processo di ristrutturazione ecologica della civiltà auspicato inizialmente da una cerchia ristretta di studiosi e attivisti a partire dagli anni 70. La tesi da essi sostenuta è nota: i mutamenti climatici esistono e sono sempre esistiti, ma l’incidenza delle attività umane è irrilevante; dunque non vi sono motivi per ridurre le emissioni inquinanti poiché non è provato che siano climalteranti. In questa spiegazione (volutamente tranquillizzante, ma rivelatrice di quella rassegnata impotenza costantemente indotta dal “realismo capitalista”) ciò che manca, è la constatazione di un dato ormai acquisito dalla quasi totalità degli studiosi impegnati sul tema**: le pur considerevoli variazioni della temperatura registrate in passato si sono verificate ciclicamente lungo l’arco di decine di migliaia, se non di milioni di anni; altra cosa furono i fenomeni di surriscaldamento circoscritti localmente e decisamente più brevi(ma comunque nell’ordine temporale dei secoli) come ad esempio quello del cosiddetto periodo caldo romano, databile dal 200 a.c. al 400 d.c., o quello del basso medioevo. Ciò che invece sta accadendo negli ultimi decenni, oltre ad essere un fenomeno non locale, ma globale, costituisce un’ulteriore impennata all’interno di un quadro già pesantemente alterato da oltre un secolo e mezzo, cioè da quando il produttivismo industriale e il consumismo indotto dalle ferree leggi del capitalismo hanno accelerato la spoliazione delle risorse naturali e la distruzione degli ecosistemi terrestri e marini.
E’ oltremodo singolare che le tesi che negano, o ridimensionano drasticamente, l’impatto umano sulle alterazioni climatiche siano state recentemente condivise da settori della società e dell’opinione pubblica che durante l’ultima pandemia si sono giustamente opposti al green pass e all’imposizione dell’obbligo vaccinale. Questo allineamento con posizioni scettiche, o addirittura negazioniste, sostanzialmente si basava sui timori legati all’ipotesi che, laddove si fosse piombati in una conclamata emergenza climatica, al precedente della sperimentazione del green pass avrebbe sicuramente fatto seguito una estensione delle forme del controllo sociale, in quel caso legata a tutta una serie di condotte ecologiche “virtuose” dichiarate obbligatorie, vincolanti e causa di discriminazione sociale nei confronti di chi avesse opposto dubbi e resistenze. E’certamente vero che la governamentalità tendente al disciplinamento sociale trova nella sequenza ininterrotta di emergenze la sua ragion d’essere e la sua giustificazione pseudo-oggettiva. Ed è anche innegabile che l’intreccio perverso tra digitalizzazione, società della conoscenza e raccolta dati costituisca la condizione ideale per esercitare più estensivamente ed efficacemente che in passato le funzioni di controllo tipiche della statualità burocratica novecentesca. Che ciò debba però avvenire in nome di una suprema eticità ecologista tanto più vincolante, quanto pretestuosa e infondata, è tuttavia un costrutto allo stesso tempo indimostrabile, ma perfetto per spegnere ogni istanza critica nei confronti della gestione capitalistica del vivente e restare nell’inazione rassegnata e colpevole; non a caso speculare, a ben vedere, rispetto alla stessa inazione implicita nel rifiuto di mettere in discussione l’american way of life dichiarato a suo tempo da G.W. Bush, apparentemente un utile idiota col dono del candore, ma di fatto un esponente di punta del rilancio delle politiche espansive di matrice imperialista USA, seguite al mercatismo neoliberista degli anni 80 e 90.
3) Dilemma apparente, medesima minaccia
In realtà ciò che generalmente sfugge a tutti coloro che si accodano al superficiale negazionismo di matrice conservatrice (sia esso trumpiano o liberal-moderato), pur se giustamente sospettosi delle presunte e altrettanto superficiali soluzioni tecnologiche promesse -pannelli fotovoltaici e motori elettrici in primis- è il fatto che, sia restando dipendenti dai combustibili fossili, sia intraprendendo la strada di un eco-tecno-ottimismo la cui capacità di abbattere concretamente le emissioni inquinanti complessive è tutt’altro che dimostrata, non ci si sottrae alla trappola e al ricatto di chi da decenni argomenta che qualunque svolta in senso ecologista danneggerebbe gravemente la produttività economica, gli scambi commerciali e di conseguenza il nostro tenore di vita. (Non è inutile ricordare che “nostro” sta ad indicare di noi bianchi nord-occidentali, da secoli accaparratori di risorse, sfruttatori di uomini, devastatori della Natura e delle connesse civiltà ancestrali indigene.) E se è vero che non abbiamo ancora evidenze scientifiche che l’introduzione su larga scala di nuove tecnologie “green” basate sull’utilizzo di materiali innovativi e utilizzo di terre rare (soprattutto considerando il ciclo produttivo nella sua interezza) possa garantire concreti benefici in termini ambientali, sappiamo benissimo quali sono stati e ancora sono gli effetti dell’utilizzo indiscriminato dei combustibili fossili non rinnovabili; ed è evidente, tranne a chi mantenga interessi lucrativi in quel mercato, che non possiamo permetterci di restare nella stessa situazione.
La verità è che entrambi i modelli energetici, sia il vecchio, basato sui combustibili fossili, sia quello “green”, basato su risorse rinnovabili o apparentemente “pulite” per la cui trasformazione in energia sono necessarie però quantità enormi di ulteriori risorse minerarie, laddove il loro utilizzo rimanesse costantemente massiccio, risulterebbero fatali proprio perché subordinati all’imperativo produttivistico di un sistema capitalistico che fagocita inevitabilmente le ricchezze naturali, gli uomini e la loro stessa possibilità di sopravvivere. L’accurato occultamento di questa verità è però particolarmente evidente nello sterile e martellante dibattito su “motori elettrici si…motori elettrici no”, la cui vera e concretissima ragion d’essere risiede di fatto nella sempre più aspra competizione tra produttori di tecnologie, modelli di mobilità e organizzazioni produttive tra loro in conflitto.
Come affermava già più di quarant’anni fa Giorgio Nebbia, tra i primi in Italia a porre il problema della connotazione generalmente “borghese” della scienza ecologica del tempo e della necessità di tornare a rileggere Marx ed Engels per vedere se “davvero non avevano capito niente”***:
“Ad un’analisi più attenta appare che, per le leggi della fisica e dell’ecologia citate all’inizio, una società sostenibile o a “emissioni zero” è fisicamente impossibile: al più si può cercare di realizzare una società meno insostenibile dell’attuale. A maggior ragione, sempre per le leggi del capitalismo citate all’inizio, una società capitalista-borghese e le regole del libero mercato, accelerano la insostenibilità, la insopportabilità degli attuali modi di produzione e di consumo da parte della natura, accelerano la violenza e l’impoverimento delle riserve delle risorse naturali e l’avvio verso conflitti per la conquista delle risorse naturali scarse. La insostenibilità è infatti figlia della appropriazione privata dei beni collettivi che sta alle basi del capitalismo e del libero mercato”. E’ dunque la riduzione a dimensione privata delle risorse primarie naturali, e la sua accettazione come fatto ovvio, a costituire il paradosso senza il cui superamento non c’è via di uscita.
4) La sola via d’uscita e i suoi ostacoli
Come affermava Marx nel III libro del Capitale: “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.”
E allora, ammesso pure che in tempi brevi sia possibile una svolta decisa verso fonti rinnovabili e tecnologie a emissioni sensibilmente ridotte, non resta dunque che una sola direzione da prendere, ed è quella di contrastare drasticamente l’estrattivismo e i frenetici processi di trasformazione di tutto il vivente in merce.
Ma per l’attuale sistema capitalisticoi disastri ecologici non rappresentano una minaccia incombente da affrontare ridefinendo le finalità e gli scopi delle attività economiche, bensì solamente un impaccio da aggirare e semmai trasformare in occasioni di ulteriori profitti, limitandosi a introdurre nuove tecnologie, senza rinunciare alla prospettiva di espansione illimitata che, oltre a definire la hybris della modernità borghese in quanto tale, come spiegava il chimico-fisico Iliya Prigogine, qualifica le “strutture dissipative” che, nella loro voracità energivora, sono destinate al collasso certo. Il capitalismo, come si sa, è metamorfico e onnicida. Sovrapprodurre sistematicamente significa infatti estrarre materia prima in una misura che compromette i cicli riproduttivi, distrugge incessantemente ecosistemi e biodiversità, conduce ad accelerare la produzione di rifiuti che si aggiungono alla distruzione e all’inquinamento in atto. Mette appena conto menzionare l’angosciante questione dell’inquinamento da plastiche, che peggiora a ritmi tali da non sembrare al momento in alcun modo gestibile.****
E forse è proprio il carattere di apparente ingestibilità dei problemi ecologici, unito al rifiuto ideologico di un approccio che razionalmente collochi le attività economiche in un orizzonte definito dai limiti naturali costituiti dalla biosfera, a determinare, a fasi alterne, la rimozione dal dibattito pubblico della questione dalla quale tutto il resto dipende: il futuro della nostra vita sulla Terra. Su questa rimozione che si traduce in un oblio generalizzato (possibile evidentemente solo per quelle fasce di popolazione mondiale non ancora colpite dagli effetti più pesanti delle varie crisi ecologiche) poco si riflette, ma è lecito ed urgente interrogarsi ora. Perché di fatto essa consente la perpetuazione della perversa catena causale che connette consumismo, produttivismo, allevamenti, agricoltura e attività minerarie intensive, competizione per le risorse, estrattivismo. Catena il cui motore consiste nella correlazione sistemica tra eccedenza dell’offerta e dilatazione dei bisogni, o in altri termini, tra i due fattori della ricerca ossessiva del profitto e dell’incessante sollecitazione al desiderio di possesso per le masse planetarie dei consumatori. Non è difficile riconoscere che la potenza di questa rimozione, che occulta il discorso ecologico, ha il suo fulcro proprio nella rivendicazione -o come si usa ripetere, la tutela- delle libertà individuali concesse, in realtà sempre più poche e ridotte in particolare dell’ipotetico diritto assoluto (o miraggio) di comprare e consumare ciò che si vuole, al fine di garantire profitti astronomici a pochissimi. Distruggere per produrre, produrre per consumare, consumare per crescere, crescere per competere. Senza limiti
Infatti, come Murray Bookchin già molti anni fa sosteneva:
“Parlare di “limiti di crescita” in seno ad un’economia di mercato capitalistica non ha alcun senso, così come non ne ha parlare di limiti della guerra in una società guerriera. Gli scrupoli morali cui oggi danno voce tanti ambientalisti sapientoni sono tanto ingenui quanto quelli delle multinazionali sono fasulli. Il capitalismo non può essere “persuaso” a porre un freno al suo sviluppo, così come non si può “persuadere” un essere umano a smettere di respirare. I tentativi di realizzare un capitalismo “verde”, o “ecologico”, sono condannati all’insuccesso a causa della natura stessa del sistema, che è un sistema di crescita continua.”
E d’altronde è troppo importante per il sistema di potere liberal-capitalista (nei fatti sempre meno liberal) che enormi fasce di popolazione private dei diritti sociali fondamentali, derubate dell’ esperienza della Bellezza, alienate e completamente esposte ai capricci del mercato, mantenute produttive da sempre più massicce dosi di farmaci antidepressivi, narcotizzate dagli onnipresenti dispositivi digitali, svuotate dei legami basilari, incapaci di comprendere quello che appare come un mondo assurdo e complicato, cittadini di Stati “democratici” senza alcun potere effettivo, almeno…almeno posseggano cose, oggetti, strumenti; il cui valore sta tutto nella capacità di distrarre senza salvare, di ingannarsi senza capire.
Da quanto detto si può cogliere pienamente non solo il senso dell’assunto di Chico Mendes, secondo il quale l’ambientalismo senza lotta di classe si riduce a giardinaggio, ma anche di come pratiche di spoliazione su larga scala, guerre di accaparramento per le risorse e protezionismo bellicoso procedano di pari passo con forme dilaganti di disumanizzazione e di alienazione rassegnata che allontanano le persone e i popoli da ogni possibile prospettiva di armonica convivenza.
5) Le dimensioni della sfida
Il lavoro da fare, per chi rifiuta di adeguarsi, è dunque enorme. Enorme e apparentemente impossibile, perché il sistema di sfruttamento planetario, che è tutt’uno con l’apparato militare controllato dagli Stati “legittimi”, attacca e si difende con dispositivi bellici mai visti prima, cui al momento hanno scarsissime possibilità di rispondere le molteplici soggettività che interpretano in vari modi le istanze della contestazione o del rifiuto netto. La cosa è ben nota a tanti protagonisti di movimenti ecologici e sociali in tutto il mondo, i quali hanno sperimentato sulla loro pelle come anni di studio, di crescita della consapevolezza, di apprendistato politico, di forme di organizzazione dal basso, possano essere spazzate via dalla violenza colonizzatrice di un capitalismo che non ammette deroghe. Di certo non si vede come possa intaccarsi la base oggettiva di questo sistema se non mettendo radicalmente in discussione la proprietà privata (quella nazionale non è altro che una sua estensione) della superficie, del sottosuolo e persino dell’atmosfera terrestre. Ancora una volta “l’analisi del pensiero marxiano mostra che una soluzione dei rapporti fra esseri umani, e degli esseri umani con le risorse scarse dell’ambiente, può essere cercata soltanto in una soluzione comunista dei rapporti di proprietà dei beni, in una pianificazione delle merci, in una più equa distribuzione dei beni materiali fra i diversi popoli e in un rigetto dell’imperialismo come strumento per approvvigionarsi dei mezzi fisici con cui soddisfare i bisogni materiali degli abitanti di ciascun paese.” (Nebbia)
Rispetto a queste considerazioni appare ancor più paradossale che nell’attuale fase storica le opzioni politiche praticabili sembrano ridotte alle due (apparenti) alternative delle liberal-democrazie e dei regimi variamente autoritari; e che la loro esibita opposizione, oltre a nascondere i caratteri essenzialmente oligarchici e predatori di entrambi, sia funzionale ad escludere dal discorso politico e dal novero del possibile qualunque proposta di socializzazione delle risorse dell’umanità e di collaborazione tra i popoli. Ciò che sarebbe davvero necessario.
Il nemico, il mostro, è sistemico, tentacolare, proteiforme; e ciò comporta una difficoltà ulteriore nella sua individuazione; un problema che potremmo definire sia di pratica che di psicologia politica: individuare il nemico aiuta a definire con chiarezza gli obiettivi ed è inoltre un fattore unificante nella lotta. In questo quadro, dunque, un compito da affrontare con forza e accuratezza si impone: è il tema della possibile riunificazione e intensificazione delle pratiche conflittuali e delle lotte per liberare Umani e Ambiente dal distruttivo modello economico che ci soggioga.
E benché il potere di sfruttamento, controllo, repressione sia smisurato, forse proprio la sempre più evidente commistione di ruoli, oltre che di interessi, tra politica, economia e finanza da un lato, e la recente diffusa accelerazione in senso autoritario della maggior parte delle post-democrazie liberalcapitaliste dall’altro, aprono spazi inediti di scontro politico, espongono più frontalmente le matrici del potere vero condensato in soggettività riconoscibili, promettono di scatenare una dialettica storica potenzialmente sovvertitrice.
Ma un potere più concentrato e riconoscibile potrebbe davvero essere più vulnerabile?
*Forse, tra tanti, il caso più eclatante è quello dell’organizzazione “Americans for prosperity”, un gruppo di pressione molto attivo nel Senato USA fondato dai fratelli Koch, proprietari della Koch industries, una delle compagnie estrattive private più grandi del mondo, finora coinvolta in circa 300 cause per inquinamento ambientale.
**Negli ultimi anni il consenso degli studiosi sulla responsabilità antropica dell’attuale riscaldamento globale è salito fino a sfiorare il 100%. Vale la pena soffermarsi sul senso e sul valore di questa schiacciante maggioranza che, se fosse la semplice espressione del prevalere di una certa teoria sulle altre, non avrebbe più peso e più legittimità di quanto non ne avesse il geocentrismo agli albori della scienza moderna. La differenza sta nel fatto che la teoria tolemaica, benché ampiamente maggioritaria, poggiava esclusivamente sulla forza e l’autorità della tradizione aristotelica. L’elevatissimo consenso registrato dalla tesi che afferma la responsabilità antropica degli sconvolgimenti climatici caratterizzanti la fase geologica dell’Antropocene (sarebbe meglio dire del Capitalocene, come sostenuto da J. Moore) poggia invece su migliaia di studi, analisi e rilevazioni condotte da centinaia di centri di ricerca sparsi nel mondo. Tale convergenza non è dunque dovuta a idee preconcette o paradigmi mentali acriticamente recepiti, ma al risultato di innumerevoli ricerche i cui frutti sono oggetto di confronto e comparazioni continue da almeno 40 anni.
***Giorgio Nebbia; Ecologia e comunismo. Ma davvero non avevano capito niente?