di Collettivo MillePiani Arezzo
Lo Stato israeliano, il bellicoso Golia sionista, ha desertificato e assassinato in massa, ha scatenato fame ed epidemie, ma non ha raggiunto l’obiettivo politico e militare che aveva messo in moto la sua guerra neocoloniale di annientamento. Per questo il teatro dell’operazione militare si allarga, per questo aumenta sempre più l’accanimento nello sterminio. Ed è per questo che Israele respinge tregue, corridoi umanitari ed ogni richiesta di “cessate il fuoco”.
Dunque sono gli obiettivi di Israele che meritano tutta l’attenzione. Non occorre congetturare molto per riconoscere nella distruzione della Resistenza palestinese il centro della strategia bellica israeliana e poiché la Resistenza palestinese e il popolo palestinese sono inseparabili, ecco che un obiettivo parallelo si delinea: disperdere, smembrare e cacciare con le incursioni aeree e i carri armati la popolazione di Gaza, portare a compimento una seconda nakba, scatenare le bande armate dei coloni in Cisgiordania per diffondere un terrore capillare. Senza sfollare la popolazione dei territori occupati – una popolazione che non si è mai rassegnata all’apartheid – la Resistenza, che del rifiuto dell’apartheid è l’emblema e lo strumento, non sarebbe mai stata sradicata. Infatti, la Resistenza – ossia la lotta armata contro l’occupazione coloniale israeliana – non è stata disfatta e il popolo palestinese, colpito e sanguinante, è ancora lì. Ora lo si assedia e lo si vuol strangolare.
La questione degli ostaggi, invece, è polvere propagandistica. Per descriverla correttamente dovremmo chiamarla “scambio di prigionieri”, poiché essa risponde direttamente a una precedente prevaricazione, quella di cui è colpevole lo Stato israeliano, che ha imprigionato chi ha disubbidito all’apartheid, chi non si è sottomesso. Ma Israele non vuole nessuno scambio e i cosiddetti ostaggi sono per il suo governo sia un ostacolo che un tema di propaganda. È evidente, infatti, che il piano d’invasione e di distruzione messo in atto dall’IDF calpesta questi “cosiddetti ostaggi”, come sanno bene i loro familiari che protestano inutilmente contro Netanyahu. Il vero scopo della strategia israeliana era un “massacro amministrativo” su grande scala, una forma di genocidio caratteristico delle colonizzazioni. La cattura di prigionieri da scambiare, da parte della Resistenza palestinese, è quindi un atto di guerra, e più specificamente di una guerra di liberazione, in un contesto concentrazionario e coloniale, nei confronti di un occupante che sta conducendo una guerra di conquista e che dispone di un gigantesco arsenale tecnologico-militare, di mezzi e ordigni che gli permettono di strappare la terra, di rinchiudere la popolazione e di terrorizzare ed uccidere dal cielo chi vuole e quando vuole. L’attacco del 7 Ottobre è stato quindi un contrattacco guerrigliero con lo scopo di fare prigionieri e che si è trasformato da un lato, per i palestinesi, in una breccia insurrezionale nel muro-fortezza del padrone super-armato, dall’altro, in un massacro scatenato dalla pioggia di fuoco di questo padrone, al quale il “protocollo Annibale” dell’IDF impone di sparare sui potenziali ostaggi del nemico. Tutte cose, quest’ultime, così come l’invenzione raccapricciante dei “bambini decapitati”, che i giornali israeliani più coraggiosi ed anticonformisti hanno smascherato attraverso testimonianze. Ma ancora, purtroppo, anche da parte di chi simpatizza sinceramente per il popolo palestinese, si parla di terrorismo. E inoltre, e più in generale, tutta la Resistenza palestinese, con la quale il popolo solidarizza completamente, permettendole di operare nel proprio seno, rimane fuori dall’orizzonte delle manifestazioni che appoggiano le aspirazioni politiche dei palestinesi e chiedono una “Palestina libera”. Eppure, soltanto questa Resistenza, e non la diplomazia internazionale, può liberare la Palestina.
Naturalmente, può riuscire nell’impresa soltanto se, nella sua inscindibile unità con il suo popolo, riceve un sostegno deciso dalle mobilitazioni collettive internazionali di quegli ampi strati sociali che riempiono le piazze per gridare “Palestina libera”. Pertanto, occorrerebbe guardare a questa Resistenza con lo stesso sguardo con cui i movimenti radicali di un tempo guardavano ai Vietcong; o come in Francia, in anni ancora più lontani, i gruppi anticolonialisti avevano guardato al Fronte di liberazione algerino. Oppure, come guardiamo alle Resistenze europee al nazifascismo. In breve, occorrerebbe suscitare un legame internazionalistico con la Resistenza del popolo palestinese. Questa, infatti, deve poter uscire dall’invisibilità nella quale è stata confinata dall’etichetta calunniosa e propagandistica di “associazione terroristica” inventata dalle liste di proscrizione del consorzio imperialistico statunitense ed europeo, e ripetuta come una giaculatoria dai portavoce giornalistici di questo consorzio.
La Resistenza palestinese non si esaurisce in Hamas, ma riunisce anche altre importanti formazioni e gruppi, laici e religiosi, con differenti storie politiche, e di essa fa parte anche l’unica organizzazione sopravvissuta alla dissoluzione dell’O.L.P.: il FPLP, che venne fondato da una delle figure storiche della lotta di liberazione palestinese e dell’internazionalismo anticolonialista: George Habasch. Inoltre, e occorre riflettervi, questa ampia coalizione di forze raccoglie il consenso attivo della stragrande maggioranza dei palestinesi, i quali offrono ai guerriglieri fedayn un ambiente sociale appropriato, un appoggio logistico e quella costante partecipazione popolare di cui ha bisogno ogni guerra partigiana. Per questo riteniamo che il riconoscimento di questa Resistenza, la rivendicazione decisa della sua depenalizzazione giuridica, sia un obiettivo politico della solidarietà internazionale con il popolo palestinese.
Come complemento di un pieno appoggio alla Resistenza dei palestinesi è, secondo noi, irrinunciabile una critica senza reticenze della diplomazia di Oslo, una diplomazia basata sull’inganno, tutto statunitense, di un falso accordo fra uno Stato israeliano, armato e colonialista, e una società palestinese disarmata e decolonizzatrice. La dissimmetria è evidente. Al contrario, se si vuol decolonizzare la Palestina fino in fondo – e non vediamo come sia possibile e desiderabile una decolonizzazione parziale – occorre cominciare ad immaginarla senza Israele, senza lo Stato genocida che divide i popoli; occorre immaginarla non con “due popoli, due stati” – la convivenza dei quali sarebbe garantita da muri e fili spinati, e nel cui contesto lo staterello palestinese diventerebbe il satellite economico del ricco Israele – ma con due e più popoli e una sola Palestina, che, proprio perché plurinazionale, avrebbe qualche chance di non ripetere le tristi imprese degli Stati nazionali europei, crogiuolo capitalistico di imperialismi, di guerre e di razzismi.
Di fronte al piano neocoloniale, la prospettiva di una Palestina plurinazionale e socialista non appare irrealistica ma resistenziale. Il famoso storico ebreo palestinese Ilan Pappé sostiene che il progetto sionista sta tramontando sanguinosamente e che la sua catastrofe proviene anche dalla fondamentale incompatibilità del sionismo con tutte le tradizioni culturali dell’ebraismo. Sosteniamo dunque il compito storico della Resistenza palestinese, lottando per una nuova realtà senza Israele.