di Jacques Bonhomme
1. Perché la Palestina resiste
Perché la Palestina resiste? È questa la domanda che, riemersa da un vecchio titolo, si fa strada in molti di noi. Il vecchio titolo, giova ritornarci, era quello di un piccolo volumetto sulla lunga e travagliata storia anticoloniale del popolo vietnamita, scritto da Jean Chesneaux. La stessa domanda dopo sessant’anni, con altri luoghi e un altro popolo, con un popolo, quello palestinese, che già allora si specchiava in quello vietnamita, come del resto in quelli dell’Africa e dell’America latina; la stessa domanda, certo, ma con un mondo dove le restaurazioni sembrano subentrate alle rivoluzioni che allora scuotevano e percuotevano la catena imperialistica mondiale e che nella moltiplicazione dei Vietnam avevano la loro metaforica parola d’ordine. Ed è una domanda, inoltre, che avvicina i mondi complementari delle masse metropolitane dell’Occidente, disarmate dalla scomposizione tecnologica dei luoghi dell’unità di classe, e dei popoli delle periferie coloniali, anch’essi derubati dei progetti di liberazione del secolo scorso, di quei progetti che, dapprima, furono interrotti e soffocati da una controrivoluzione imperialistica mondiale e che, successivamente, o a volte contemporaneamente, vennero disarticolati dal neocolonialismo.
La domanda, quindi, riunisce umanità sfruttate, svalutate e respinte – i sottouomini di Sartre, per intendersi – e fa riascoltare voci antiche nelle nuove, apre una prospettiva sulle forze che, nei mutevoli contesti storici, ridanno costantemente vigore alle lotte antimperialistiche. Infine, questa domanda, come avviene in ogni buona filosofia, avvia un’indagine e chiede repliche e proseguimenti, e, soprattutto, non sollecita una risposta che stringa in mano elementi saldi e univoci, poiché questi, mentre gli aerei israeliani bombardano rabbiosamente i palestinesi e i loro fedayyin, non sono afferrabili.
Quello che dalle parole “Perché la Palestina resiste?” può scaturire, è soltanto una lunga e intricata riflessione, ed è questa riflessione che vogliamo iniziare. La domanda che abbiamo posto e che ci poniamo è quindi un inizio.
Iniziamo con un vistoso antagonismo di classe e di “valori”: lo Stato israeliano è potente militarmente, rigidamente etnico e dinamico negli scambi capitalistici mondiali, veicola investimenti biomedici, partecipa con successo ai flussi finanziari dell’Occidente e, non senza profitto, fornisce – e ha fornito – consulenze, addestramenti e tecnologie militari a una vasta clientela di cricche di torturatori, naturalmente quasi sempre guardiani degli interessi occidentali; il popolo palestinese, invece, è, perlopiù, sradicato e sorvegliato, sopravvive a stento come riserva di forza lavoro extra-territoriale, tira avanti con i resti di una terra condannata all’inaridimento dal controllo israeliano delle reti idriche, riceve le elemosine dei rifugiati, i suoi pochi ospedali – anche prima di divenire il bersaglio preferito dell’aviazione israeliana – non riuscivano a soccorrere una popolazione povera e perseguitata; ma questo popolo ha dato vita a una Resistenza armata che, a partire dal periodo del mandato britannico, ha attraversato le più dure avversità, rinascendo dalle stragi e dagli assedi che ne hanno segnato il cammino doloroso. L’antagonismo qui delineato è così estremo, ma anche così tipico – così valoriale, in un certo senso – che si è impresso profondamente nell’immaginario sociale dei popoli e delle classi, in ogni parte del mondo. Quando, poi, fra questi due poli sociali, la tensione precipita – come accade oggi – verso il genocidio, verso un genocidio subito dai “dannati della terra” a opera di uno Stato militarista, capitalista e razzista, ecco allora che una solidarietà di massa circonda i palestinesi e che lo Stato sionista diviene l’emblema dello sconvolgimento neocolonialista del pianeta. Per questo la Palestina è divenuta il mondo.
Il piccolo diviene grande, i palestinesi, in un’epoca di diaspore post-coloniali e di atomizzazioni sociali, ricapitolano le sofferenze, il terrore e l’indistruttibile gesto di rivolta di popoli e classi mutilati, ma non spezzati dalle nuove forme di capitalismo. Queste, imperniate sulla messa a profitto di ogni elemento della riproduzione sociale, fino alla vita e all’ambiente, allargano indefinitamente anche le linee di espansione dell’imperialismo, nelle quali – come è noto – le ristrutturazioni capitalistiche culminano. Infatti, in queste ristrutturazioni si mostra – quale tratto tipico della produzione per lo scambio – la tendenza imperialistica a oltrepassare senza sosta i propri limiti e ogni limite. Il gigantismo imperialistico degli Stati Uniti proviene da questi meccanismi, e il suo sosia in scala regionale, lo Stato sionista, è anch’esso costituito, per quanto riguarda l’organizzazione economico-militare, nello stesso modo. Il gigante imperialista, però, diviene fragile di fronte a una vittima che sappia trasformarsi nel nemico politico dell’aggressore coloniale, che sappia mutarsi in un partigiano con il proprio campo d’azione, con un avvolgente legame con il popolo, e che sia capace, in quanto partigiano di una guerra di liberazione anticoloniale, di suscitare un’attiva solidarietà internazionale, spingendo, con il proprio esempio e con i propri simboli, altri gruppi alla lotta, per obbiettivi, al tempo stesso, diversi e convergenti. Resistenza anticoloniale e Rivoluzione socialista divengono allora una sequenza verosimile, e del resto il ribaltamento del rapporto fra il piccolo e il grande, fra il popolo e il mercato mondiale, fra il partigiano e gli eserciti armati dalla metropoli, faceva scrivere a Mao che l’imperialismo è una “tigre di carta”.
Questa dialettica storica, di cui le vicissitudini della Rivoluzione cinese sono la base sociale e materiale, e che facilmente può essere assunta come importante chiave interpretativa, ci permette di comprendere l’eco mondiale che cinquanta o sessanta anni fa ebbe la lunga storia della liberazione del Vietnam, passata, come la Palestina, attraverso due imperi coloniali, anzi, attraverso un impero coloniale ed un sistema neocolonialista. Ma l’eco che ebbe allora il Vietnam, sembra averlo oggi la Palestina, una Palestina piagata ma non piegata, che snoda alle proprie spalle una storia non meno lunga e non meno istruttiva.
E’ proprio da questa storia della Resistenza palestinese che affiora un fatto cruciale, una svolta decisiva riguardante il contenuto di classe dei raggruppamenti dei fedayyin: la rottura, scaturita dall’azione, dai programmi e dal radicamento sociale di tali raggruppamenti, della trama intercorsa tra i notabili palestinesi e i circoli nazionalisti della Lega araba (in particolare i cosiddetti “progressisti”), una trama mirante a costituire, dall’alto e nel contesto dei vigenti rapporti di classe, un’organizzazione politica e militare palestinese. Questa O.L.P. esclusivamente scenica finì in una sterile manovra diplomatica, e si dileguò nei primi anni Sessanta, quando i fedayyin, dall’interno della società palestinese, in mezzo a masse di profughi, di contadini poveri e di salariati semioccupati, misero in piedi l’O.L.P. riconosciuta e resero di uso comune la parola al-Muqawwama, Resistenza. I Vietcong, insieme al F.L.N. algerino, tracciarono la via ai combattenti palestinesi, e dal momento che il popolo del Vietnam fronteggiava e teneva in scacco la superpotenza imperialistica che aveva proseguito il dominio francese con altri mezzi, ebbe largo corso l’immagine suggestiva della Palestina come “Hanoi araba”.
Tutto ciò, naturalmente, andò ben oltre l’internazionalismo proletario dei partiti che fecero e disfecero, in circostanze inconfrontabili, le “Internazionali”, poiché, nelle lotte armate del cosiddetto Terzo Mondo contro i poteri coloniali o neocoloniali, non c’erano coordinamenti, centralizzazioni o vincoli, bensì prospettive comuni, concatenazioni e interazioni di iniziative, con effetti incrociati e con lontane metamorfosi. Infatti, dalla conferenza di Bandung al discorso del Che Guevara ad Algeri, dal panafricanismo all’accerchiamento della metropoli imperialista circondata dall’immensa periferia coloniale, evocato da Mao e da Lin Piao, un nuovo internazionalismo prese corpo, e nell’orizzonte di quello si annodarono e si sciolsero molte ed eterogenee alleanze, con filiazioni lontane fra di loro, nel tempo e nelle congiunture rivoluzionarie. Rizomaticamente.
La svolta storica della Resistenza palestinese avvenne in un tale contesto e in esso, nei rapporti e nelle influenze che vi si svilupparono, al-Muqawwama trovò il suo posto e creò la sua identità. Infatti, la Resistenza mandò all’aria i piani di Israele concernenti la sistemazione amministrativa, le deportazioni e gli statuti di apartheid della popolazione palestinese che, a partire dagli anni Cinquanta, erano stati messi a punto e in parte avviati da Ben Gurion e dai suoi collaboratori. La sorte che sembrava attendere il popolo palestinese, dopo l’uragano delle pulizie etniche seguite alla nakbah del 1948, era quella di una frammentazione e di una disseminazione degli abitanti della Palestina in un casellario di sorveglianze, di reclusioni e di reinsediamenti, inquadrati in una varietà di regimi di confinamento e di espulsione derivante dai luoghi di approdo dei rifugiati o dai precedenti stanziamenti. Così, mentre i palestinesi rimasti in territorio israeliano vennero assoggettati fino al 1966 agli obblighi e alle vessazioni di una sorveglianza militare, e mentre la diaspora esplodeva in direzione della Cisgiordania, di Gaza, del Libano e della Giordania, sui palestinesi dei campi profughi, dai quali lo Stato sionista intendeva estirpare ogni speranza di ritorno, incombeva la minaccia dei reinsediamenti. La Libia e la Somalia erano state, negli anni Cinquanta, alcune destinazioni prescelte dai governi israeliani e, allo scopo di pervenire a questa soluzione, erano stati coinvolti i mediatori italiani dell’amministrazione fiduciaria dell’ONU; poi, nel 1956, attraverso l’appoggio di Ben Gurion all’attacco anglo-francese a Suez, la striscia di Gaza venne occupata dall’IDF – insieme al Sinai, poi restituito all’Egitto – e lo sfollamento dei rifugiati di quella terra divenne il più impellente problema di pulizia etnica israeliana.
Il popolo palestinese, dunque, doveva ridursi a membra sparse, a raggruppamenti disarticolati e sradicati, in una Palestina che Israele stava attrezzando per futuri ingrandimenti. L’O.L.P. dei notabili non poteva arrestare questa disgregazione. Invece, la prima impresa storica dell’O.L.P. dei gruppi guerriglieri fu quella di impedire questo tracollo politico dei palestinesi, unificandoli attraverso una educazione culturale anticolonialista, capace di avvalersi anche della “propaganda del fatto”, un’importante eredità delle prime avventure rivoluzionarie del XIX secolo.
Dopo di allora, la Resistenza palestinese divenne una parte decisiva del rivolgimento anticoloniale mondiale, e fu sovraesposta a tutte le manovre, a tutte le trappole e a tutti i tentativi di liquidazione definitiva che il blocco imperialista poteva mettere in campo. La guerra civile in Libano ne è stata il sanguinoso teatro, con due stragi di profughi palestinesi in due momenti drammatici della guerra, Tell al Zatar, nel 1976, e Sabra e Shatila, nel 1982. I colpi tremendi sferrati sui rifugiati erano un attacco indiretto, subdolo e crudele all’O.L.P., per seminare il terrore fra la sua gente. Del resto, tutta la campagna di guerra che la cricca Begin-Sharon condusse in Libano, in combutta con le bande dei falangisti cristiano-maroniti, perseguì questo obbiettivo: così, spaventosi bombardamenti desertificanti e terroristici si succedettero senza sosta nelle zone di Beirut più abitate dai palestinesi, con decine di migliaia di vittime. I palestinesi però non si piegarono, e neppure ripiegarono, poiché di lì a pochi anni iniziò una grande intifada, duratura e metodica, audace e paziente, e soprattutto molto più matura di quelle che avevano risposto al furto mercantile della terra e alle violenze organizzate dei coloni durante il mandato inglese.
Ma dopo Sabra e Shatila, negli anni dell’intifada, i rapporti di forza tra le classi e i movimenti anticoloniali, da una parte, e i centri metropolitani del potere economico e militare, dall’altra, stavano cambiando e la grande borghesia monopolistica e finanziaria metteva in funzione nuovi meccanismi di assimilazione e di dominio, sia all’interno delle società occidentali, dove la fabbrica fordista stava disfacendosi nell’impresa diffusa, sia negli spazi delle lotte di liberazione antimperialistiche, dove molti movimenti affondavano nelle sabbie mobili di nazionalismi regressivi. In questa congiuntura avversa, anche il movimento palestinese sbandò, si avvolse in equivoci e cadde in involuzioni moderate, nelle quali venne trascinata Fatah, la formazione della Resistenza più legata alla borghesia palestinese dell’emigrazione e ai resti del vecchio notabilato. Il tentativo di appeasement verso re Hussein di Giordania e poi, successivamente, l’appeasement degli accordi di Oslo sono stati una china rovinosa, dalla quale l’unità e il radicalismo della Resistenza sono usciti compromessi; e per quanto Arafat abbia tentato, tardivamente e ambiguamente, di uscire dalla trappola in cui si era infilato, il congegno costruito doveva generare l’ANP, o, più precisamente, doveva generare il ritorno del notabilato nella nuova figura di una burocrazia asservita a Israele. I sussulti di dignità di uomini come Marwan Barghuthi e di alcuni gruppi dissidenti di Fatah, che ripresero la lotta armata nell’isolamento e in una situazione di disorientamento generale, non riuscirono a impedire il tracollo di un’organizzazione ormai disgregata dalla strategia di logoramento di Israele e dei suoi alleati e protettori. L’immagine cupa e sconvolgente di questo declino è quella di Arafat prigioniero nel suo quartier generale in Cisgiordania, mentre gli abitanti di Jenin vengono fatti a pezzi dai blindati e dai bulldozer israeliani. In un certo senso, la solitudine di Arafat, che per Deleuze era una nota tragica del personaggio, si è risolta in un duplice inganno, quello del vecchio nemico e quello dei suoi compagni di lotta, scivolati in una sorta di “collaborazionismo”.
Tuttavia, le oscillazioni, i passi diplomatici frettolosi e moderati e gli ammiccamenti alla pax americana di una parte dell’O.L.P dopo gli anni Ottanta, seguiti ai rastrellamenti, agli assedi e ai massacri subiti in Libano dal popolo e dalle forze militari palestinesi, non appannarono l’immagine della Resistenza palestinese come crocevia di tensioni “terzomondiste”, come amplificatore simbolico degli slanci e delle amarezze, degli avanzamenti e delle sconfitte, di tutte le insubordinazioni anticoloniali del pianeta. In modo ormai sommesso, e quasi tacito, l’Hanoi araba sopravviveva in Palestina, e continuava a essere la risposta ad una forma di colonizzazione assolutamente peculiare. La peculiarità sconcertante della colonizzazione della Palestina era infatti costituita da un raddoppiamento, e, insieme, da una duttile modulazione, di consolidati dispositivi imperialistici di appropriazione di uomini e di territori, per assorbire quella terra nel “Grande gioco” degli interessi, del fabbisogno energetico, delle alleanze e della gerarchizzazione razziale dell’Occidente.
Per questo, vi si incontrano, ben incastrati l’uno nell’altro, due tipi di colonialismo: il colonialismo di insediamento, di cui le istituzioni e i corpi militari sionisti sono stati l’innesco e lo Stato d’Israele il motore; e il colonialismo dell’accumulazione capitalistica, nelle sue due versioni storiche, quella inglese dell’amministrazione diretta, e quella statunitense del mercato combinato con il controllo strategico. Così, in Palestina, il capillare sistema di segregazioni, corridoi, barriere, percorsi elettronici e permessi o divieti discrezionali dà un’espressione territoriale a un panopticon razziale che, mentre dissolve la terra sotto i piedi dei suoi abitanti, diffondendo poi i prodotti agricoli di questa terra nel mercato globale, trasforma una parte dei suoi abitanti in salariati precari e sottocosto, mentre l’altra parte, fallito il piano delle deportazioni in Africa o in Iraq, viene abbandonata alla grama condizione dei rifugiati. Nel frattempo Israele è divenuto un volano mondiale degli investimenti nelle tecnologie finalizzate all’assemblaggio degli armamenti ed ha assunto in proprio, grazie a un imponente flusso finanziario, il compito strategico della protezione militare degli interessi commerciali ed energetici occidentali nell’area. Il “Grande gioco” ha, in tal modo, fuso il vecchio e il nuovo, e la cacciata delle popolazioni, insieme alla manomissione delle strutture sociali del paese, ha preparato una riorganizzazione capitalistica della produzione e degli scambi. Non sorprende che questo “Grande gioco” abbia preso avvio dal mandato inglese, e che nei suoi inizi girino insieme un’importante mediazione dei Rothschild, il raggiro britannico di Feisal e dei vecchi alleati arabi locali, un patto spartitorio tra l’Inghilterra e la Francia e, naturalmente, il benservito a T.E. Lawrence. “Il fantasma di Kipling”, per dirla con una parafrasi.
L’Inghilterra prima, gli Stati Uniti poi. Non è soltanto una successione storica, poiché gli Stati Uniti e lo Stato d’Israele somigliano proprio in alcuni aspetti delle loro rispettive storie coloniali. “I palestinesi sono gli indiani di Israele”, ha scritto Deleuze nei giorni bui della catastrofe libanese, lasciando scorgere la stessa natura sociale – quella del “capitale” che esce dai suoi stessi limiti – negli stermini e nelle ghettizzazioni dei popoli nativi della frontiera nordamericana e negli stermini e nelle ghettizzazioni in Palestina. Infatti, negli uni e negli altri, viene perfino messa la sordina alla “missione civilizzatrice” della colonizzazione, al “fardello dell’uomo bianco”; poiché, per entrambi, la misura di tutto risiede nel “diritto incondizionato” su una terra e, con differenti giustificazioni religiose, nelle imprese economiche che essa dischiuderà, quale esclusivo destino ed elezione. Pertanto, il Sionismo politico – molto diverso dal minoritario e sconfitto Sionismo culturale – ha in sé un nucleo puritano che deforma razzisticamente e corrompe in modo radicale tutte le tradizioni dell’ebraismo. Anche per questo il Sionismo ha riempito perfettamente il ruolo che gli equilibri geopolitici di due imperi gli preparavano, quello di perno del riassetto coloniale del Medio Oriente dopo le due grandi guerre imperialistiche del Novecento.
Questa radice razzista del Sionismo fa emergere, per contrasto, il tratto universalistico della lotta di liberazione anticoloniale dei palestinesi: “noi non siamo un popolo come gli altri”, proclama orgogliosamente Israele; “noi siamo un popolo come gli altri, vogliamo essere solo questo”, replicano i palestinesi. La risposta palestinese, immaginata in una Revue d’études palestiniennes, non è, a ben vedere, una semplice opposizione, ed è molto più di un programma. E’, in verità, un aspetto decisivo dell’ethos delle rivoluzioni anticoloniali. Infatti, queste rivoluzioni incontrano subito, già nella semplice richiesta dell’indipendenza nazionale, quindi nel perseguimento di un obbiettivo storico delle borghesie europee, il terreno duro e impervio dei rapporti di classe. Nell’orizzonte che si dischiude a queste rivoluzioni il passaggio dalla nazione al socialismo, e quindi l’incrinatura, prima, e la rottura, poi, del blocco sociale che aveva dato alla questione nazionale contenuti determinati e finalità specifiche, è una svolta che, quando avviene, è lo sbocco dei conflitti precedenti, e le sue possibilità dipendono ampiamente dagli intenti, dalla composizione sociale e dal tipo di lotta dei singoli movimenti anticolonialisti. Le ramificazioni commerciali, militari e finanziarie della metropoli imperialista e le borghesie nazionali sono, infatti, tendenzialmente complici, e soltanto in brevi periodi, o in circostanze variabili da situazione a situazione, una contrapposizione temporanea le può separare. La contraddizione interna al blocco economico e sociale delle classi dominanti di cui quel contrasto è il segno, dipende dai fattori che vi sono coinvolti, e che, nel mondo coloniale, vanno analizzati caso per caso, come avvertiva Mao. L’emancipazione dei popoli colonizzati ha sempre camminato sul filo di una lama, ma in questa impresa, nella quale soltanto la concatenazione delle insubordinazioni avrebbe potuto rompere gli “anelli della catena imperialistica”, ogni popolo, in ogni periodo dello scontro, avrebbe pronunciato le parole della Revue d’études palestiniennes: “noi siamo soltanto un popolo come gli altri, vogliamo essere solo questo”. Le ragioni indistruttibili di una Resistenza e, al tempo stesso, del salto rivoluzionario delle Resistenze anticoloniali, sono contenute in quelle parole, nude, asciutte e limpide. Anche per esse la Palestina resiste.
Resistenza e Rivoluzione sociale, e poi, con articolazioni e mediazioni sempre da costruire, anche socialista, non sono certo una serie inseparabile, ma possono essere almeno un ordine sensato. E l’accanimento con il quale la Resistenza palestinese è stata combattuta dall’imperialismo occidentale e dallo Stato coloniale israeliano farebbe sospettare che questo ordine, del quale un unico Stato plurinazionale è un prerequisito, abbia sempre suscitato in loro una paura ossessiva, riguardante, naturalmente, la continuità del sistema multiforme degli interessi e delle relazioni occidentali in Medio Oriente. Se ne ricava agevolmente che questo sistema è un sistema del disordine. O meglio – se si vuol evitare l’ossimoro – un disordine sistematico, un metodo del disordine. Il “Grande gioco” – inglese, francese e statunitense – ha potuto costruire, o tentare di costruire, il suo Medio Oriente, con tutte le arti e con tutte le forze del disordine, ossia con tutti i mezzi della guerra, della politica, dei complotti e, soprattutto, dell’economia capitalistica (mezzo e fine al tempo stesso), nel loro circolare continuarsi e alternarsi in base alle circostanze, e ben oltre le illazioni ricavabili dalla vecchia formula di Clausewitz; ma non ha potuto venire a capo, e cioè addomesticare e far rientrare in un quadro neocoloniale, la Resistenza palestinese, con la sua via rivoluzionaria sempre aperta e sempre percorribile. In un certo senso, il disordine degli imperialisti sta ritornando loro addosso, anche se questa situazione fa crescere a dismisura la loro violenza. La “tigre di carta” può essere molto pericolosa.
Forse un aneddoto vietnamita ci può dare la chiave di questa congiuntura: Ho Chi Minh, a Fontainebleau, nel 1946, lasciò di stucco i diplomatici francesi che gli esponevano un piano per mantenere il Vietnam nell’orbita della Francia, rivolgendo loro questa domanda: “Ma l’Unione francese è rotonda o è quadrata?”. Ho Chi Minh, maneggiando con ironia la cosmologia confuciana, nella quale il cerchio del cielo proietta la sua armonia sul quadrato della terra, lasciando nel disordine i suoi quattro angoli, intendeva smascherare e deridere l’inganno neocolonialista, privo di armonia e perciò lontano da ogni uguaglianza. Rigirando l’aneddoto sulla Palestina, si mette subito un piede nell’ordine sensato che annoda saldamente insieme la Resistenza e la Rivoluzione. Solo la decolonizzazione senza resti di tutta la Palestina – come doveva avvenire ed è avvenuto con la riunificazione del Vietnam – e non la prosecuzione delle spartizioni, corrisponde al cerchio di Ho Chi Minh.
Questo compito, considerato semplicemente come un compito, politico e militare – e, più in profondità, sociale e culturale – appare, e non può non apparire, irrealistico, se confrontato con la strapotenza del blocco imperialistico occidentale, che fa affluire un’immensa ricchezza nella sua piazza militare ed economica mediorientale. Se invece la decolonizzazione della Palestina viene ricollocata nel contesto, al quale essa appartiene storicamente, di quel movimento mondiale – un movimento innegabilmente policentrico e rizomatico – che lungo quasi tutto il Novecento ha fatto detonare insieme il panafricanismo e l’America latina, l’estremo Oriente e l’operaio-massa delle metropoli occidentali, allora la decolonizzazione della Palestina può finalmente apparire nella prospettiva delle metamorfosi e delle dispersioni di quel movimento mondiale. Ed è lì, è in quelle vicissitudini e in quelle sconfitte, o nei ritorni diasporici delle rivoluzioni coloniali finite in mano alle borghesie nazionali, o soffocate con manovre e strangolamenti economici dalle coalizioni imperialistiche, di volta in volta danneggiate dai programmi anticoloniali più coerenti e radicali, è lì che vanno ricercati il motore e la richiesta di una decolonizzazione della Palestina, ed è lì che oggi si scorgono i segni di una solidarietà attiva con il suo popolo e la sua Resistenza. In Occidente, i simboli della Palestina smuovono gli studenti delle università, fanno uscire i lavoratori immigrati nelle piazze e compaiono in tutti i luoghi dello scontro sociale; altrove, alle masse povere schiacciate dal neocolonialismo, la Resistenza palestinese offre l’immagine del riscatto; e inoltre, in alcuni Stati dove le borghesie nazionali non sono completamente succubi delle istituzioni finanziarie del blocco capitalistico occidentale, e dove, per periodi più o meno lunghi, la decolonizzazione è stata impedita dalle complicità tra quelle borghesie e la metropoli imperialista euro-statunitense, il genocidio dei palestinesi irrompe con l’appello politico che la Resistenza fa rimbalzare in tutto il mondo. Quando misuriamo la forza storica della Rivoluzione palestinese, dobbiamo scegliere la scala adeguata, che è quella della prospettiva, di una prospettiva portata da linee di separazione e di lotta che tagliano l’epoca e il mondo. Oggi, infatti, è lì che la vicenda della Palestina ricade. E ciò sembra confermare la paradossale teoria maoista della tigre di carta imperialistica. Anche per questo la Palestina resiste.
2. Per il riconoscimento politico della Resistenza palestinese
In quasi tutta l’Europa occidentale, e quindi nell’Europa intruppata nella NATO, la riprovazione delle devastazioni, dell’assassinio di massa e del terrore senza fine di cui Gaza è il sanguinoso teatro, hanno attirato sui palestinesi una diffusa solidarietà, con la sconcertante eccezione della Germania. A quella parte delle società occidentali che promuove e anima i cortei, le occupazioni e i presidi, si aggiungono ampie fasce di popolazione che mostrano una sincera simpatia per i palestinesi, ma soltanto, o soprattutto, come vittime. Tuttavia, nel contesto generale delle tante e variegate azioni collettive che si richiamano a vicenda e si susseguono nel tempo, una mancanza, qualora la si noti, non può passare inosservata: manca l’imprescindibile coinvolgimento della figura centrale, o, per meglio dire, del soggetto politico consolidato della storia rivoluzionaria del popolo palestinese, manca, cioè, un dichiarato, pieno e motivato sostegno della Resistenza palestinese. I riferimenti a essa, quando ci sono, sono fugaci o rituali. Inoltre, molte associazioni appartenenti all’area del pacifismo moderato, associazioni e gruppi che partecipano con sincera convinzione alle mobilitazioni, ripetono le generiche condanne della guerriglia palestinese consacrate dalle veline dei comandi atlantici. Da tali remore e da tali reticenze deriva un compito strategico decisivo per i movimenti antimperialisti: spingere l’ampia solidarietà morale e umanitaria con i palestinesi verso uno sbocco politico.
Un passo importante in tale direzione riguarda il ruolo da assegnare alla Resistenza palestinese, e quindi la sua ridescrizione come soggetto storico e politico di una rivoluzione anticoloniale modulata sui tempi eterogenei e multilaterali dei rivolgimenti che, a partire dalla prima metà del Novecento, hanno messo in fermento le periferie della metropoli imperialista, allora divisa dalle rivalità imperiali che si scaricarono distruttivamente sull’Europa. Ma per questa ridescrizione serve una parola d’ordine, serve, cioè, l’individuazione di un compito che riunisca e che saldi, all’interno del suo campo di significati, una contingenza – la situazione in cui siamo – e una necessità – la genesi remota e multiforme dei problemi in cui siamo presi. Infatti, dentro una parola d’ordine riuscita c’è sempre una teoria: le “tesi di Aprile” sono dentro “tutto il potere ai soviet”. Il grande esempio, non dovrebbe intimorire, anzi, dovrebbe istruire, dovrebbe invitare a cercare parole d’ordine e, naturalmente, a sforzarsi di spiegarle. Allora, per il nostro problema, ossia per la valorizzazione politica della Resistenza palestinese come soggetto rivoluzionario, una parola d’ordine adeguata può essere questa: “Riconoscimento politico della Resistenza palestinese”. Ma perché un riconoscimento? Quale riconoscimento? Chi deve riconoscere? In che modo?
Il riconoscimento è una condizione di lotta e non la cessazione della lotta, come invece si ritiene comunemente in base ai codici borghesi della diplomazia. Può essere la risoluzione della lotta; ma in questa risoluzione l’inimicizia non si è annullata, poiché il riconoscimento non è amore e in esso, anche quando è reciproco ed è avvenuta la conciliazione, la forma sociale, più o meno giuridica, che lo riveste rivela un proseguimento della lotta con altri mezzi. Questo carattere del riconoscimento è apparso nella modernità europea con la filosofia di Hegel, e non c’è dubbio che esso illumini ampiamente le vicissitudini della lotta di classe. Anche le maschere e gli autoinganni che hanno distorto e mistificato la condizione coloniale agli occhi del colonizzato e del colonizzatore si sono spezzati nel duro metallo della lotta per il riconoscimento, la cui topografia relativa a quel contesto, è stata ricostruita da Frantz Fanon. Così la ribellione del colonizzato, in quanto ha in sé il “desiderio” del riconoscimento, non è una richiesta di riconoscimento che possa, o debba, essere soddisfatta da un atteggiamento rispettoso dell’altro, dalla cortesia del colonizzatore, o da una legge del governo coloniale o metropolitano, e non è neppure l’acquisizione o la conquista di diritti, o dei diritti in senso lato; ma è invece una dichiarazione di inimicizia assoluta – per dirla con il vocabolario di Carl Schmitt -, una dichiarazione che solleva il colonizzato, disumanizzato o infantilizzato dal colonizzatore, all’umanità che affronta la lotta, a una lotta dell’uomo con l’uomo. Perciò, il riconoscimento della Resistenza palestinese mette capo, o potrebbe mettere capo, come scopo generale, ad un nostro impegno tenace per sostenere e per accrescere la sua rappresentatività politica del popolo palestinese, ignorata o negata nella sola solidarietà con le vittime, e di alimentare, tramite tale rappresentatività, la sempre più vistosa confluenza delle masse diseredate del Terzo Mondo e delle lotte sociali in Occidente sotto i simboli palestinesi.
C’è, comunque, un altro tipo di riconoscimento che richiede la nostra attenzione e i nostri sforzi. Ed è la ritirata dei governi occidentali dalla messa al bando, e dalla conseguente repressione legale, delle formazioni, laiche e mussulmane, che formano la coalizione della Resistenza palestinese. L’importanza di questo obbiettivo non dipende dalla sua natura giuridico-costituzionale, dalla sua natura di diritto politico, inquadrato da principi costituzionali liberaldemocratici; ma dipende dal grado di approvazione popolare raggiunto dalla lotta armata dei fedayyin e inversamente dall’estensione della protesta per la distruzione neocoloniale della società palestinese. Il riconoscimento giuridico sarebbe, in questo caso, lo sbocco di una lotta; ma contemporaneamente esso diventerebbe anche il catalizzatore di questa lotta. Essa, infatti, romperebbe le dighe della coscienza ideologica delle nostre società; e inoltre affronterebbe con decisione quella singolare “malafede” che ha i suoi cardini nell’edulcorazione umanitaria della crudele violenza dei ricchi e nella – parallela – amplificazione disumanizzante della violenza tragica dei poveri. Le reticenze, gli imbarazzi e i silenzi che circondano il nome dei guerriglieri palestinesi, e che rendono ormai impronunciabile la parola fedayyin, sono un chiaro segno di questo sdoppiamento. Ne è una conferma l’inibitoria mitologia negativa che, a partire dagli anni Sessanta, è cresciuta intorno alla Resistenza palestinese; questa mitologia, simile a quella che durante una lunga fase del capitalismo industriale ha dipinto i proletari come la classe pericolosa, ha conosciuto i fantasmi razziali scatenati dalle guerre di liberazione del Terzo Mondo, e si è nutrita di un immaginario storico anti-arabo di remota provenienza, per quanto ampiamente rinfocolato, nel Novecento, dalle vicende di due “paesi allegorici” della sfida anticoloniale all’occidente, l’Algeria e la Palestina. Un tale retaggio di rappresentazioni, nel quale scorrono continuamente le manipolazioni propagandistiche del complesso militare-giornalistico, solleva la necessità di un gesto contro-egemonico. Fare agitazione per il “riconoscimento” politico e giuridico della Resistenza palestinese può divenire questo gesto; e, al tempo stesso, può avviare una Rivoluzione culturale.
La Resistenza palestinese e la Rivoluzione palestinese, in questo senso, si appoggiano l’una all’altra e un nesso ulteriore le inserisce in una concatenazione mondiale di fronti di lotta e di mobilitanti solidarietà, e ve le innesta tanto più profondamente, quanto più la Resistenza diviene rappresentativa di prospettive di liberazione sociale e politica che oltrepassano la dimensione nazionale. Soltanto in questa maturazione della Resistenza in Rivoluzione, soltanto in questa dialettica storica che sa vedere la Rivoluzione già all’opera nella Resistenza, può emergere il Soggetto politico che il riconoscimento sollecita e proclama. Ma questo compito ricade soprattutto sui movimenti o sulle azioni di massa che nascono e crescono in Occidente. Il riconoscimento dei combattenti palestinesi che Israele perseguita e rinchiude in carceri di massima sicurezza, e che punisce ulteriormente con rappresaglie, espropri ed espulsioni dei familiari, è un aiuto materiale alla Resistenza ed è anche, al tempo stesso, una Rivoluzione culturale che vuole introdurre in un’Europa che riscopre le differenze di classe, uno specchio anticolonialista capace di destare, in quelle differenze, un ritorno della coscienza. A tal proposito si rende ineludibile, perlomeno come problema da affrontare, una svolta nel comportamento politico e nell’atteggiamento intellettuale dei comitati e delle iniziative di sostegno alla Resistenza palestinese, del resto minoritari all’interno della vasta protesta contro il genocidio e delle reti di soccorso delle vittime. Questa svolta, di cui un impegno deciso per il “riconoscimento” potrebbe essere un’energica trazione, e certamente anche la molla di una Rivoluzione culturale, risiede nell’impegno per portare in pubblico le origini, la parabola, le idee e gli intenti delle organizzazioni che compongono il blocco eterogeneo della Resistenza palestinese, poiché dalla comprensione dei rapporti reciproci di queste organizzazioni, nonché dei loro rispettivi ruoli nella storia del Medio Oriente, derivano le prospettive di Rivoluzione anticoloniale veicolate da quella Resistenza. Quindi, una fervente discussione che, invece di ruotare sui timori, sulle riserve e sulle geremiadi riguardanti la posizione dominante di Hamas, si concentri sulle questioni che emergono dall’approdo e dalla forma attuali dello schieramento resistenziale palestinese, appare decisamente desiderabile. Nuove attenzioni potrebbero farsi strada, ed esse dovrebbero portare sulla scena la composizione sociale della Resistenza palestinese, poiché è questa composizione che mentre dischiude le vie di una piena decolonizzazione della Palestina, ne mostra, al tempo stesso, gli impedimenti. Tra questi, il più tenace e avverso è, senza dubbio, la natura sfuggente – quasi una mancanza di fisionomia – della “borghesia nazionale” palestinese.
Le borghesie nazionali sono l’insidia latente delle Rivoluzioni anticoloniali, sia prima che dopo l’indipendenza politica. Frantz Fanon, con vivo allarme, mise in guardia i movimenti e i nuovi governi del Terzo Mondo dalla ricaduta neocoloniale dei rapporti d’affari che, durante il periodo delle amministrazioni europee dell’Africa, avevano raccolto e sedimentato i maggiori interessi locali intorno alle strutture e ai poteri della metropoli imperialista. La rovina del panafricanismo è avvenuta anche a causa dei traffici che le borghesie post-coloniali, attratte da intermediazioni e da fondi finanziari, avevano alimentato con crescente avidità, riconsegnando così i loro paesi – naturalmente con qualche eccezione e in tempi più o meno lunghi – ai meccanismi predatori imperialisti, dalle manovre sui debiti degli stati post-coloniali alle strategie degli investimenti occidentali. E non basta; poiché le complicità delle borghesie nazionali con il vecchio colonialismo hanno armato sanguinose controrivoluzioni anche nel corso della lotta anticoloniale, come è avvenuto, per limitarci alla sola Africa e a un caso esemplare, nel Congo di Patrice Lumumba. Anche senza tirare in ballo le burguesias compradoras dei più recenti secoli latinoamericani, la cui storia è assolutamente peculiare – per i retaggi della “conquista”, per le cricche militari, per la proprietà fondiaria e per l’organicità della dipendenza dall’Inghilterra e, soprattutto, dagli Stati Uniti –, le borghesie nazionali sono immancabilmente attirate, seppur in tempi diversi, nell’orbita dell’imperialismo. Ecco quindi la ragione che ci spinge, con tutte le accortezze sollecitate dai differenti contesti storici e geografici, a ricercare i luoghi, gli interessi e la funzione di una poco visibile borghesia palestinese.
L’elemento sociale più caratteristico di questa borghesia è il suo debole rapporto con le zone sottoposte alla sorveglianza, agli assedi, alle punizioni collettive e alle continue riorganizzazioni militari del territorio. Questa borghesia solitamente ha impiantato attività commerciali o imprenditoriali all’estero, principalmente nei paesi del Golfo e in Europa; inoltre, una sua cospicua componente è inserita nel giro delle professioni e delle università. La sua influenza sui territori avviene mediatamente, attraverso i canali del commercio e degli aiuti, per mezzo degli enti internazionali e degli uffici dell’ANP, la cui burocrazia è parte di questa borghesia. Nella genesi storica di questa classe hanno avuto un ruolo importante le dinastie familiari che nel periodo del mandato inglese monopolizzavano le cariche civili e religiose ed ha contato molto, come contorno di queste autorità sociali, il notabilato locale più stratificato. Tuttavia anche le migrazioni dei gruppi meno poveri della popolazione, seguite alle ripetute pulizie etniche, hanno avuto il loro peso nella formazione di una borghesia palestinese.
Le classi popolari, invece, risiedono stabilmente nei territori, oppure, in misura più ridotta, in Libano e in Giordania. Da una piccola borghesia di artigiani e agricoltori autonomi, spesso separati dal loro piccolo appezzamento di terra dalle barriere elettroniche disseminate da un capo all’altro della Cisgiordania, si passa ai sottosalariati, ai pendolari dell’edilizia e dell’agricoltura, ai lavoratori giornalieri che attraversano i posti di blocco e, infine, ai profughi. Questa massa di popolazione costituisce una doppia periferia, suburbana – fino alla densità di popolazione estrema e smodata della striscia di Gaza – e coloniale. Lo Stato di Israele – bifronte e mostruosa fusione di neocolonialismo economico e di colonialismo d’insediamento – appare quindi come la miniatura della metropoli imperialista accerchiata dalle guerre di liberazione dei popoli colonizzati. La famosa trasposizione maoista dello spazio geografico e sociale della rivoluzione cinese alle insurrezioni anticoloniali, sembra concentrarsi, con una scala insolita, in Palestina.
Questa composizione di classe partecipa in vari modi ai gruppi della Resistenza. La borghesia, tuttavia, si spartisce tra l’ANP e Hamas, anche se lo fa senza entrare nello scontro politico; poiché, su questo terreno, la borghesia è interessata ai movimenti della Resistenza soltanto in relazione alle opportunità economiche e istituzionali che potrebbe offrirle, in futuro, una società palestinese proiettata – naturalmente entro la sovranità di uno Stato palestinese – in ampi circuiti commerciali. Rispetto al problema che si delinea con la composizione di classe emergente dal quadro sociale palestinese, le frange dissidenti di Fatah e Hamas sono rimaste a lungo mute, e oggi, mentre l’aviazione israeliana incendia con il fosforo bianco i palestinesi di Gaza e le loro città, è impensabile che questo lato cruciale della Rivoluzione anticoloniale palestinese riacquisti una preminenza che, per quanto riguarda quelle organizzazioni, non aveva avuto in precedenza.
Invece i rapporti di classe, e i programmi sociali a essi afferenti, erano considerati decisivi ai tempi dell’O.L.P., e questa attenzione ricompare oggi nella sola formazione resistenziale palestinese che sia sopravvissuta alla dissoluzione dell’O.L.P; ricompare, cioè, insieme all’obbiettivo di un unico Stato plurinazionale che ne è la condizione, negli intenti, nei programmi e nella strategia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP). Il passaggio dalla lotta per l’indipendenza nazionale alla trasformazione delle basi sociali del mondo coloniale era, per Fanon, l’unica difesa contro il ritorno dell’imperialismo attraverso i meccanismi del mercato mondiale. Ed era necessario non ritardare questo passaggio; sappiamo, infatti, che questo ritardo perdette Lumumba. La nostra lotta per il riconoscimento politico della Resistenza palestinese, se vuole sollevare idee e discussioni in rotta di collisione con la retorica di Oslo e con la vuota fraseologia della Roadmap, se vuole essere una Rivoluzione culturale che smaschera la pax americana in Medio Oriente, allora deve addentrarsi nei fatti e nella storia della Palestina e dei movimenti di liberazione che vi si sono succeduti, per comprenderli, per valutarli e per sostenerli con un adeguato discernimento. Così, pur profondendoci in un attivo e incondizionato appoggio a tutta la Resistenza palestinese, non possiamo allentare lo sforzo per renderne visibili le potenzialità rivoluzionarie, e, come rovescio della medaglia, per individuarne, laddove si trovano, i legami con la borghesia nazionale e con il notabilato religioso. Ritrovare la memoria dell’Hanoi araba fa parte di un tale sforzo.
3. Quale Palestina?
Se guardiamo a Lenin e agli anelli della catena imperialistica, se guardiamo cioè a questo segnale topografico dei punti di forza e di debolezza dell’imperialismo, la Palestina prende l’aspetto di un caso limite o, per meglio dire, anomalo, poiché diviene difficile stabilire se la Palestina sia, come periferia coloniale, un anello debole, o se sia, come metropoli, un anello forte. Infatti, in Palestina ci sono entrambi gli spazi, entrambe le geografie, entrambi i mondi. E, per di più, questi mondi sociali sono adiacenti e la loro complementarità è, al tempo stesso, un rapporto di classe, dove il passaggio di ricchezza è nudo, estremo e visibile, anche se lo Stato di Israele gira con l’accumulazione capitalistica, e quindi moltiplica quella ricchezza nei commerci mondiali. La Palestina occupata e colonizzata è un anello debole, ma l’anello forte non è lontano, poiché il colono o la strada con le vetrine a poca distanza dal muro, sono già l’anello forte. Le rotture dell’anello debole, nella metafora di Lenin, coincidevano con le rivoluzioni nei paesi semicapitalistici (come la Russia zarista) o coloniali, mentre le rotture dell’anello forte sarebbero state, qualora avessero avuto un corso vittorioso, le rivoluzioni europee del primo dopoguerra. Quindi, non è arbitrario chiedersi quali ripercussioni avrebbe una Rivoluzione anticoloniale in Palestina, poiché è fuor di dubbio che una tale rivoluzione, per non lasciare in piedi i poteri politici e militari del colonialismo e per spezzare le basi economiche del sempre incombente neocolonialismo – entrambi massicciamente incarnati dalle istituzioni e dalle strutture di Israele -, dovrebbe decolonizzare tutta la Palestina e quindi sciogliere lo Stato sionista.
Si tratta, a ben vedere, di uno sbocco tutt’altro che impensabile. Infatti, ha dalla sua parte la spinta delle circostanze, o, più precisamente, la confluenza oggettiva di importanti fattori. In breve, lo scontro ha raggiunto forme e dimensioni tali, e, in questo scontro, i colonizzati hanno acquisito una capacità di lotta così tenace e determinata che tutto l’assetto coloniale della Palestina ne è scosso alle radici; esso, agli occhi dei palestinesi è sempre stato un crudele e patetico “teatro dell’assurdo”, con tutte le sue divisioni territoriali, quelle vecchie e quelle nuove, con tutti i suoi confini, tracciati e ritracciati col sangue e col terrore, con tutti i luoghi vietati, con tutte le perdite irreparabili, con i legami spezzati e con le memorie infrante. I palestinesi respingono questo passato e vogliono recuperare il loro mondo, mentre lo Stato di Israele non può correggersi senza rinnegarsi, ossia non può uscire dai meccanismi che ne fanno un sistema coloniale. Questa situazione chiama in causa, ancora una volta, Lenin, quel Lenin che nella contraddizione tra il rifiuto delle classi dominate di vivere come prima e l’impossibilità per le classi dominanti di agire come prima, scorgeva il segno sicuro di un’incipiente situazione rivoluzionaria. La Palestina è percorsa e tormentata proprio dalla contraddizione scoperta da Lenin, per quanto le classi dominate della periferia coloniale siano diverse dalle classi dominate della metropoli industriale, avvertibile sottotraccia nelle parole del rivoluzionario russo. Il fatto che negli spazi delle occupazioni coloniali e dei flussi economici neocoloniali, il proletariato irrompa nelle lotte con le sembianze del popolo, di un popolo lacerato, connotato dagli sminuzzamenti segregativi della distribuzione territoriale dello sfruttamento, nulla toglie, infatti, a una contrapposizione che, nei suoi caratteri storici generali, circoscrive forze e fattori ricorrenti negli stati di crisi potenzialmente rivoluzionari. Balza agli occhi che una tale descrizione rispecchia molte situazioni tipiche dei rapporti di classe in Palestina. Ciò infirma, inflessibilmente, la “soluzione a due Stati”, poiché un tale progetto non ha più alcuna presa sulla congiuntura storica; per quanto, come mossa difensiva, quella formula possa ancora venir gettata nel polverone propagandistico anche dai gruppi maggioritari della Resistenza palestinese. Invece, l’attuale approdo della lotta che si è dispiegata in Palestina per un tempo più lungo di un secolo, e alla quale oggi lo Stato coloniale israeliano risponde nel modo più sanguinoso e più estremo, lascia scorgere una prospettiva, e questa prospettiva è la decolonizzazione radicale.
Al contrario, la cosiddetta “soluzione a due Stati”, se esaminata nei suoi risvolti pragmatici, rivela subito una mancanza di realismo, naturalmente qualora venga impugnata, come spesso accade nei movimenti antimperialisti, con l’accorto proposito di procurare ai palestinesi un posto sicuro, nell’incombere di uno sterminio di proporzioni inusitate. La mancanza di realismo risiede nella sbandierata finzione di uno Stato palestinese ridotto ai monconi dei territori occupati, del resto ormai ridotti a detriti di territorio, di uno Stato sorvegliato dal potente vicino, probabilmente attraverso vincoli e tutele di ogni genere, di uno Stato inquadrato nei sottoservizi del mercato mondiale e relegato nel ruolo di maquilladora mediorientale. Inoltre, quale coabitazione concorde e pacifica potrebbe prendere piede in Palestina se questo vagheggiato Stato palestinese dovesse temere la confinante potenza nucleare, che commercia tecnologie militari e assistenza contro-insurrezionale con tutti i più loschi tirapiedi della consorteria imperialista euroatlantica? La provocazione retorica insita nella domanda ci dà un’idea dell’astratta utopia rappresentata dalla formula diplomatica dei due Sati, che passa sotto silenzio la disparità di forze fra uno Stato coloniale già costituito e occupante, nonché crocevia capitalistico di scambi economici e di strategie belliche, e uno Stato da costruire laddove il colonizzatore vorrà sgombrare. Di fronte a tutto ciò, tenere ferma la barra sulla Rivoluzione anticoloniale, pur compiendo tutte le ritirate necessarie, ci sembra la condotta più realistica.
Anche gli echi che il messaggio di liberazione della Resistenza palestinese può avere nelle classi più disagiate della società israeliana sono piuttosto flebili. Queste, comunque, sono lontane dai timidi e moderati movimenti pacifisti, o addirittura ostili nei loro confronti. Tali movimenti del resto non hanno mai compiuto gesti eclatanti o atti incisivi. Si sono sempre limitati a denunciare le più aggressive campagne militari, gli insediamenti e le rappresaglie, ma non hanno mai rivolto uno sguardo alla Resistenza palestinese. Le loro denunce hanno spesso oscillato tra una posizione fedelmente istituzionale – come quella di Peace now, che segue le orme di Sharett, uomo di governo e cauto oppositore di Ben Gurion – e qualche tentativo di collaborazione con i moderati di Fatah, intrapreso da Gusch Shalom nel segno dei programmi che, ben manipolati dalla diplomazia statunitense e dai governi israeliani, hanno condotto agli accordi di Oslo. Il discorso antimperialista non è mai penetrato in questi movimenti pacifisti, mentre è passata in essi la vaporosa ideologia che avvolge il cosiddetto “processo di pace”, una sigla che accompagna le mediazioni statunitensi in Medio Oriente a partire dai loro primi passi, compiuti da William Rogers, segretario di Stato dell’amministrazione Nixon. Ma se in quei gruppi di opposizione israeliani non si è mai fatta strada la coscienza delle basi coloniali dello Stato sionista, la forza e la tenacia di una tale rimozione rinvia all’assetto socio-razziale della società israeliana, che vela separazioni e sbarramenti fra i gruppi che la compongono. Difficilmente una società di questo tipo, canalizzata da uno Stato che ne veicola la riproduzione e che perseguita con accanimento ogni non-conformismo, potrà uscire dalle fobie razziste, in questo caso prevalentemente antiarabe, scongiurandole con i confini disegnati dalle diplomazie americane e israeliane. Sembra più sensato lottare contro quei confini e far incontrare gli uomini, poiché soltanto gli uomini potranno scoprire e combattere l’irrazionalità di quei confini, e soltanto gli uomini potranno “riconoscersi” reciprocamente.
Molto meno arrendevole e meno ignaro del pacifismo israeliano più recente è stato, a partire dagli anni del mandato inglese, il movimento culturale pacifista Brit Shalom, nato da una corrente minoritaria, universalistica e profetica del sionismo e subito emarginato dal sionismo politico della colonizzazione. Per quanto si sia trattato di un movimento che non riuscì a conquistare un largo seguito, la sua influenza sulla discussione internazionale intorno alla situazione della Palestina non fu modesta, anche grazie alle idee e al carisma degli uomini che lo promossero, uomini come il rabbino Judah Magnes, ammiratore di Gandhi e figura di spicco dell’Università di Gerusalemme, e come lo scrittore, filosofo e teologo Martin Buber. Questo gruppo si adoperò con decisione per una Palestina arabo-ebraica e si batté con fermezza per un unico Stato binazionale; una lotta che divenne sempre più difficile e solitaria negli anni in cui, sotto il mantello della spartizione della Palestina, l’O.N.U. avallava le occupazioni e le appropriazioni sioniste, e le bande Irgun e Stern scatenavano il terrore che doveva sfociare, con la partecipazione di tutte le unità militari sioniste, nelle pulizie etniche del ’48. Il gruppo Brit Shalom smosse le acque e lanciò denunce: così quei foschi e sanguinosi inizi dello Stato di Israele attirarono sui suoi piani e sui suoi metodi le critiche di importanti intellettuali ebrei. Però poi tutto si spense e le “geometrie” del neocolonialismo organizzarono lo spazio geografico di un nuovo controllo, questa volta ordinato su un asse statunitense. Dopo la fondazione dello Stato di Israele e la scomparsa di Magnes, il progetto di Brit Shalom si esaurì, senza sviluppi e senza conseguenze rilevanti. Infatti, a quel progetto, di natura prevalentemente culturale ed etica, mancava una base sociale nelle classi popolari, sia arabe che ebraiche, mancava, cioè, un collegamento con i palestinesi che subivano le scosse traumatiche della colonizzazione, e mancava anche un legame con le masse povere e sradicate dell’emigrazione ebraica. La generosa lotta di Brit Shalom inciampò e cadde sui suoi limiti di classe; ma seppe alzare la voce contro l’usurpazione territoriale perpetrata dallo Stato sionista.
Il regime di apartheid che, nei territori occupati, si articola sulle interdizioni, sugli accessi filtrati, sui salvacondotti tecnologici, sulle auto e sulle persone ovunque in coda per i controlli, sulle distribuzioni spaziali e su tutte le caselle di uno spazio sottoposto al panopticon della “prigione più grande del mondo”, viene replicato, all’interno dei confini dello Stato sionista, da un altro apartheid, certamente più blando, e operante attraverso il sindacato di Stato, l’Histadrut, i privilegi etnici e una divisione sociale del lavoro ghettizzante: di questo apartheid sono stati e continuano a essere vittime i mizrachi. I mizrachi, ossia gli ebrei immigrati in Israele dai paesi arabi, affiancarono, in questa condizione di pariah, i palestinesi residenti nel territorio israeliano, per i quali fu varato, dopo le pulizie etniche del ’48, uno statuto di sorvegliati. Tuttavia, la discriminazione nei confronti dei mizrachi eresse, secondo il tipico cliché etnico della modernità capitalistica, lo sfruttamento di classe sul disprezzo razziale, e i mizrachi divennero lavoratori a bassissimo costo, confinati in aree abitative disagiate e precarie ed esposti ad abusi e prevaricazioni da parte dei gruppi dominanti askenaziti. Questa e altre divaricazioni etniche e, al tempo stesso, sociali si sono accumulate in Israele a partire dalla sua fondazione – o addirittura dagli anni Trenta, dal periodo dell’attivismo pionieristico delle organizzazioni sioniste – ma non hanno provocato tensioni sociali durature, neanche quando hanno generato vistose e umilianti emarginazioni dei gruppi subordinati. L’unica sollevazione dei mizrachi, purtroppo minoritaria, avvenne all’inizio degli anni Settanta, e dette vita a un movimento, soprattutto giovanile, che, molto significativamente, si denominò “Pantere nere”. Poi i mizrachi furono risucchiati dallo stesso vento di restaurazione che soffiava in Occidente, e oggi vengono storditi con nazionalismo e religione. Le differenze di classe all’interno di Israele sono diventate mute. Soltanto la disgregazione dell’architettura etnica dello Stato israeliano potrebbe ridar loro voce.
Una Palestina libera dovrebbe coincidere con una Palestina decolonizzata, e il suo aspetto, le sue condizioni materiali e culturali, i suoi problemi più controversi e, contemporaneamente, le sue possibilità più o meno intravedibili non appartengono a una praxis attuale, bensì alla prospettiva cui ogni praxis accenna, alla prospettiva di cui nessuna praxis può fare a meno, come insegnano non soltanto tutte le teorie del marxismo rivoluzionario, ma anche l’ideale di saggezza di Aristotele. Ma di questa prospettiva, l’epicentro della lotta di liberazione in Palestina, la Resistenza palestinese, pur sapendone molto più di noi, pur avendola costruita, non può dichiararne né spiegarne le ragioni senza temere che mistificazioni e stereotipi razzisti di ogni genere le deformino, e senza rischiare ritorsioni verso la propria gente. Per questo, dell’auspicabile Rivoluzione culturale che i movimenti antimperialisti possono avviare e guidare all’interno delle masse occidentali, coinvolte nelle proteste contro il genocidio di Gaza, fa parte anche l’insistenza sulla prospettiva della Rivoluzione palestinese. Prospettiva che emerge – o può essere fatta emergere – dalle idee e dalle vicende della Resistenza palestinese, dalla condensazione di “pratiche” e di “tecnologie” del potere coloniale nello Stato Sionista – per dirla ancora una volta con la terminologia di Foucault – e da un confronto serrato e necessario tra la lotta di liberazione dei palestinesi e quelle che si sono snodate in alcune Rivoluzioni anticoloniali del Terzo Mondo. Così, alla “questione” Palestina ritornano tutte le dimensioni e tutte le profondità storiche che molte cronache troppo sbrigative tendono a trascurare.
E’ tutto questo che conduce a immaginare una Palestina senza lo Stato israeliano, senza uno Stato nel quale si sono sedimentati i “dispositivi di governamentalità” coloniale e neocoloniale finalizzati a riprodurre tutte le più elaborate distribuzioni territoriali di popoli e di classi e, insieme, tutte le più collaudate gerarchie amministrative dei rapporti etnici e dei rapporti di classe. La prospettiva della Resistenza palestinese, considerata nel suo moto dialettico, in quel moto dialettico che ne mostra il latente e progressivo farsi Rivoluzione anticoloniale, appare pienamente visibile nel punto cruciale indicato da una Palestina unificata, plurinazionale e gravitante sulle masse “diseredate”, su quelle masse diseredate che per Fanon dovevano essere il primo beneficiario della decolonizzazione. Tutte le forme di democrazia che si possono intravedere, desiderare e preconizzare per la Palestina, per non divenire le democrazie puramente elettorali del padrone occidentale, dovrebbero basarsi su quei fondamentali requisiti, i quali, a ben vedere, sono lo sbocco dell’educazione politica impartita da una durissima lotta anticoloniale. Le nostre mobilitazioni antimperialiste hanno un ruolo non marginale in questo scontro mondiale, nel quale del resto sono in gioco anche le devastazioni sociali, i bilanci di guerra e le militarizzazioni urbane e scolastiche nella metropoli occidentale, dove non è facile far echeggiare l’uno nell’altro, l’antagonismo proletario e l’antagonismo dei colonizzati. Non è facile, ma oggi accade questo: il popolo palestinese, che, come i vietnamiti, combatte in mezzo allo sterminio che lo prende di mira, ha messo in stallo il nemico, attraverso la sua Resistenza, e, contemporaneamente, ha lanciato, in giro per l’Occidente, nei ghetti urbani e tra gli immigrati, tra gli operai e in mezzo ai lavoratori precari, ai disoccupati e agli studenti, un appello per una presa di coscienza sociale, storica e di classe. E nei paesi ex-coloniali, dove la decolonizzazione si era interrotta o era finita nelle sabbie del neocolonialismo, ha suonato un allarme. Ne sono scaturite iniziative che hanno contribuito a isolare ancor più l’Occidente imperialista. Non bisogna né sopravvalutare né sottovalutare i conflitti e le contraddizioni che nascono o si rivelano nel nostro tempo. Quando sul terreno ci sono tanti rami secchi, una scintilla può incendiare tutta la prateria, ha scritto Mao.