di Jacques Bonhomme
1. Dal presente al passato: vecchie storie da non dimenticare
Quando sono in corso rivoluzioni o guerre civili, le svolte diplomatiche più sorprendenti possono essere una “continuazione della lotta rivoluzionaria con altri mezzi” – per parafrasare il celebre detto dell’altrettanto celebre generale prussiano -, e così è stato a Brest-Litovsk, nel 1918, o in Cina, tra i comunisti e il Kuomintang, nel 1937, di fronte all’invasione giapponese. Ma quando, come appare prepotentemente nel caso della Palestina, una Rivoluzione scaturisce da una Resistenza anticoloniale lunga e sofferta, costellata di offensive e di repressioni spietate, certe svolte diplomatiche tendono ad aprire, e a esasperare, un dualismo fra due livelli, e di conseguenza fra due forme, della lotta: l’articolazione delle alleanze e l’articolazione degli obiettivi. L’apparente complementarità di queste due forme e di questi due livelli della lotta non deve, però, ingannare, poiché le alleanze e gli obiettivi non si accordano mai spontaneamente e soprattutto – a causa della contraddizione che li oppone – non si accordano mai stabilmente. In alcune circostanze le alleanze e gli obiettivi si divaricano ampiamente.
Per quanto riguarda la Palestina, il dualismo concerne due scene non componibili: da una parte l’accordo di Pechino, con il quale le autorità cinesi hanno precostituito, all’ombra dei propri investimenti di capitale nell’area mediorientale, una riconciliazione al ribasso fra tutte le organizzazioni palestinesi e dall’altra le iniziative autonome delle formazioni della Resistenza, come, per esempio, la diffusione di una guerriglia capillare della popolazione palestinese in Cisgiordania, una guerriglia destinata a generalizzare e a radicalizzare lo scontro con lo Stato sionista nelle zone affidate alla sorveglianza dell’ANP, il solerte poliziotto di Israele.
Le proporzioni immani del genocidio perseguito da Israele e appoggiato attivamente dal blocco imperialista occidentale, le cui cifre sono largamente superiori a quelle dichiarate e tendono a crescere a velocità impressionante, hanno indubbiamente influenzato l’accomodamento, probabilmente tutto esteriore, di Pechino. Proprio per questo la situazione reale, nelle zone spopolate dal genocidio e nei campi di battaglia della Cisgiordania, non è quella imposta dalle diplomazie cinese e russa.
In questa tela diplomatica che avvolge la Resistenza palestinese, anche il presidente dell’ANP, che della Resistenza vorrebbe sbarazzarsi, è andato in libera uscita a Mosca, dopo che i suoi sodali, nei loro viaggi diplomatici in Europa, avevano ben recitato il loro ruolo nel rito mediatico del riconoscimento di un finto Stato palestinese, fantasticato, senza troppa originalità, nello spartito dei “due popoli, due Stati”. E anche in Russia l’ANP ha ottenuto l’approvazione di questo logoro e vuoto stereotipo diplomatico, nel quale, del resto, il suo potere delegato territoriale, orbitante sui circuiti economici di una borghesia palestinese extra-territoriale, trova la sua unica e artificiosa legittimazione. Comunque, questo schema facilone e corrivo, ultimo e più brillante esemplare propagandistico della lunga successione dei “processi di pace” patrocinati dagli Stati Uniti – sempre e coerentemente volti a isolare, a spezzare o a indebolire la Resistenza palestinese -, questo schema che ha condotto, come è noto, alla più poderosa accelerazione e moltiplicazione degli insediamenti di coloni mai avvenuta fino ad allora, viene oggi rimesso in circolazione tra Pechino e Mosca per assorbire le forze politiche della rivoluzione anticoloniale in Palestina in un sistema di alleanze che, per quanto rivale dell’imperialismo occidentale, ostacolerebbe gli sviluppi e le potenzialità di tale rivoluzione.
Di tale contraddizione è stata una significativa conferma – o per meglio dire una controprova – una dichiarazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diffusa dopo il voto, potremmo dire, quasi “esorcistico” della Knesset contro qualsiasi ipotesi di Stato palestinese. Infatti, il FPLP ha riaffermato, in quel documento, che la Resistenza palestinese non è stata irretita in trame negoziali di alcun genere, ma lotta per la liberazione della Palestina “dal fiume al mare”. Questa immagine geografica della Palestina restituita a una piena integrità territoriale e, quindi, ai suoi abitanti scacciati, segregati e assassinati in massa, viene gridata ormai, in aperta sfida a censure, polizie e denigrazioni, in tutte le piazze in Europa (a eccezione di quelle della Germania imbavagliata), ed è un segno di consapevolezza politica e storica, della consapevolezza che Israele è a tal punto il luogo di condensazione e di amplificazione di dinamiche coloniali e neocoloniali coinvolgenti tutto l’Occidente da assorbire nel suo meccanismo di sfruttamento e di subordinazione qualunque forma politica limitrofa. Così la Resistenza palestinese è costretta a proporsi obiettivi che, nonostante la loro conclamata lungimiranza storica, devono essere spesso mascherati, e nel migliore dei casi velati, negozialmente.
Inoltre, la Resistenza palestinese deve prevedere anche altri effetti contraddittori, che riguardano il fitto intreccio di appoggi e di condizionamenti provenienti dalle milizie politico-religiose e dai gruppi di guerriglia esterni alla Palestina che la regionalizzazione della guerra, messa in moto dallo sterminio israeliano della popolazione di Gaza, le ha affiancato in un’ampia porzione di territorio. Per quanto oggi la Resistenza palestinese debba avvalersi di queste forze traendone il massimo risultato, alcune di esse lasciano intravedere rischi e ostacoli sul cammino degli sviluppi rivoluzionari della lotta di liberazione, potendo comprometterne la natura sociale, laica e anticoloniale. Questa situazione, del resto, sembra aver curvato la Resistenza palestinese in senso geopolitico, al punto che tale curvatura ha introdotto una nuova denominazione: l’“Asse della Resistenza”. Con questa denominazione, però, perde rilevanza la composizione di classe della popolazione palestinese, e contemporaneamente si offusca la proiezione di tale composizione nei rapporti interni al blocco delle organizzazioni armate palestinesi. Soltanto questi rapporti e quella composizione sociale ci permettono, infatti, di rendere reciprocamente perspicui e mutuamente interdipendenti il passato e il presente della Resistenza palestinese.
Ciò significa che la Rivoluzione, recata in grembo dalla Resistenza palestinese, ha seguito un cammino tortuoso e irregolare, con sconfitte e con ritorni, con tutti i cambiamenti e con tutte le metamorfosi derivanti dalle ferite delle sconfitte, con le svolte convulse e disperate imposte da quelle sconfitte, e infine, ma con un segno opposto rispetto ai disastri della repressione trionfante, con le latenti e contraddittorie maturazioni collettive emerse dai passaggi traumatici di una lunga storia, soprattutto da quei passaggi in cui le avanguardie armate, soccombenti alle rappresaglie del nemico, hanno aperto la via alle insurrezioni popolari. Questo passato così drammatico, infelice e formativo – una vera e propria “coscienza infelice” nel senso datole da Hegel – è approdato a un presente politicamente piuttosto arido, in quanto il tracollo di Fatah, discioltasi nel sottopotere da piccolo ascaro dell’ANP, ha permesso a un’organizzazione della costellazione sunnita, Hamas, di rendere assai vistose le proprie insegne. Così, il monopolio della rappresentanza propagandistica e giornalistica dei palestinesi, assegnato, in Occidente, ad Hamas con l’intento palese di far rientrare il popolo palestinese negli stereotipi neocoloniali dell’ossessione anti-islamica, ha oscurato la realtà peculiare, storica e sociale, dei palestinesi, i quali, però, hanno messo e continuano a mettere nella loro lotta aspirazioni, bisogni, sofferenze e fini provenienti da un passato di Resistenza e Rivoluzione agitato e intenso. Questo passato fa da detonatore a un presente di rapporti di classe dislocati nel territorio, sempre riemergenti da un razzismo antiarabo, distribuiti da una dipendenza economica che ammassa senza sosta i diseredati della periferia coloniale davanti a porte tecnologicamente blindate, sorvegliate dal feroce guardiano della metropoli imperialista. Ritroviamo qui, nell’interdipendenza di piani temporali sfalsati ma inseparabili, nell’avvicendarsi di esaltanti imprese troppo presto spezzate e di impossibili adattamenti, nei passaggi bruschi o lenti fra il mondo di ieri e il mondo di oggi, la dialettica, drammatica e spiazzante, della duratura e inesausta lotta rivoluzionaria dei palestinesi. Questa dialettica accentua significativamente l’equivocità dell’espressione “Asse della Resistenza”. Infatti, il presente della Resistenza palestinese è sì in perdita rispetto al passato; ma quel passato, nel quale la natura di classe degli obiettivi antimperialisti dell’OLP, riusciva, seppur con oscillazioni, ad aprirsi un varco, persiste nella tenacia con la quale i palestinesi si battono, da anni, contro il terrorismo tecnologico dell’occupazione e del genocidio israeliani. Sebbene soltanto il FPLP rappresenti il rispecchiamento cosciente del presente politico dei palestinesi nel loro passato, questo passato smuove potentemente il popolo palestinese nella forma e con l’aspetto di un continuo “risveglio”, di un risveglio dal presente attraverso lo stimolante del passato, per dirla con i toni di Walter Benjamin.
In questo passato la Resistenza palestinese è stata – in una fase cruciale della sua multiforme vicenda – un progetto rivoluzionario radicale, e la controrivoluzione che allora soffocò questo progetto coinvolse le forze, gli equilibri e le manovre dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati occidentali, sempre sintonizzati con lo Stato israeliano, il tutelato tutore dei loro interessi nell’area. Era il tempo delle grandi offensive dei Vietcong e del Napalm sulle foreste tropicali vietnamite, Che Guevara era stato ucciso qualche anno prima, il panafricanismo faceva tremare il vecchio colonialismo anche se la decolonizzazione dell’Africa appariva indifesa verso il neocolonialismo, e la Cina – dove la Rivoluzione culturale teneva testa alla “borghesia nel partito comunista” – era divenuta, insieme a Cuba, l’orizzonte storico di un nuovo internazionalismo, di un internazionalismo che la conferenza di Bandung, alla metà degli anni Cinquanta, aveva proiettato su uno spazio planetario. In questo contesto, attraversato da uno scontro di classe mondiale, nel quale molti anelli della catena imperialistica scricchiolavano, e nel quale le rivoluzioni anticoloniali sfociavano facilmente in rivoluzioni socialiste, la Resistenza palestinese, la nuova al-Muqawwama dell’OLP, grazie all’iniziativa delle organizzazioni marxiste rivoluzionarie che ne facevano parte, trasformò i palestinesi rifugiati in Giordania, nella base sociale, politica e militare di un rivolgimento rivoluzionario comprendente, oltre ai palestinesi, le classi popolari giordane, urbane e rurali. In questa strategia, che presupponeva un’unità di classe tra i profughi palestinesi e il proletariato giordano, la Giordania sarebbe divenuta, in conseguenza della rivoluzione socialista che vi doveva aver luogo, la grande retrovia di una guerra popolare di liberazione in Palestina. Infatti, lo Stato sionista si sarebbe trovato in una posizione analoga a quella del fantoccio neocoloniale vietnamita Van Thieu, mentre i fedayyin sarebbero stati sostenuti da un potere rivoluzionario ben assestato in un territorio giurisdizionalmente riconosciuto, proprio come la Repubblica del Vietnam del Nord. Amman sarebbe divenuta l’Hanoi araba e, in quel passaggio decisivo della lotta rivoluzionaria antimperialista in Palestina e nell’Asia occidentale, l’Hanoi araba preconizzata dalla Resistenza palestinese incarnò intenti solidi e realisti. E divenne presto un simbolo internazionalista, così carico di passione che, in Italia, nei cortei degli operai e degli studenti, gli slogan “Palestina libera” e “Palestina rossa” echeggiavano insieme.
La Palestina delle deportazioni, degli esodi, dei “massacri amministrativi”, delle popolazioni cacciate con il terrore dei battaglioni dell’Haganah, la Palestina resa invisibile dai successi capitalistici di Israele, applauditi dalle masse piccolo e medio borghesi d’Occidente – spesso blandite dallo scherno antiarabo della loro stampa -, questa Palestina misconosciuta dalle classi medie irruppe nei notiziari attraverso gli spettacolari e incruenti dirottamenti aerei compiuti dai fedayyin del FPLP, allora guidato da Jurj (George) Habasch. Gli aerei svuotati venivano fatti esplodere nelle piste di atterraggio e i passeggeri, riuniti nella pista, dovevano ascoltare gli appelli e i comunicati della Resistenza: una “propaganda del fatto” che, in quel periodo, fece da amplificatore all’Hanoi araba. Questa, infatti, scatenò un allarme senza precedenti in Israele e negli USA, le cui vecchie alleanze in Medio Oriente, poggianti sullo zoppicante patto di Bagdad, andavano sfaldandosi, e il piano Rogers, mirante a isolare la Resistenza palestinese e a indebolire l’ala sinistra del Baath siriano, venne varato per scongiurare il rischio di una Rivoluzione araba. Il generale israeliano Herzog ruggiva contro le “basi rosse” in Giordania, le portaerei USA pattugliavano la costa libanese e re Hussein dette inizio a una sanguinosa e vasta repressione dei fedayyin e dei partiti proletari giordani schierati con i guerriglieri palestinesi. Ma la liquidazione della Resistenza palestinese in Giordania, la distruzione dell’Hanoi araba, nonostante l’appoggio dell’aviazione israeliana ai carri armati di re Hussein, mise in moto una guerra civile diffusa e per un anno intero la situazione militare e politica in Giordania fu oscillante. Dopo il “Settembre nero” del 1970 che aveva segnato l’inizio della battaglia, con i campi profughi di Amman attaccati e straziati dai corpi scelti del monarca hascemita, lo scontro continuò e la Resistenza palestinese, in mezzo a rastrellamenti e ad arroccamenti, si incrinò internamente. Le divisioni che vennero allo scoperto seguivano linee di demarcazione di classe.
Questi attriti interni all’OLP, in parte già emersi, coinvolgevano in modo deciso, ben al di là di pur importanti problemi organizzativi, le basi sociali della Resistenza, che i gruppi marxisti, il FPLP e il FDPLP, volevano allargare alle classi popolari dei paesi di sbocco della diaspora palestinese, coltivando con esse rapporti di fiducia e reclutandovi forze combattenti, mentre Al–Fatah non si curava dell’unità di classe, e dei conflitti che potevano scaturire fra i profughi palestinesi e i salariati, i disoccupati e i contadini giordani o libanesi, avallando a volte prevaricazioni e diffidenze. Inoltre, se le formazioni marxiste si rifiutavano di subordinare la propria condotta ai buoni rapporti con tutti gli Stati arabi e a un legame saldo e amichevole con la Lega araba, ma regolavano le loro alleanze secondo la prospettiva storica di una interdipendenza tra la liberazione della Palestina dal colonialismo sionista e altre rivoluzioni sociali e anticoloniali da appoggiare e favorire in tutto il mondo arabo, al contrario Al-Fatah perseguiva unicamente l’obiettivo della liberazione della Palestina dallo Stato sionista, cercando, per raggiungere questo scopo, appoggi e aiuti a tutto campo nella Lega araba. Quando re Hussein e il suo capo di gabinetto Wasfi Tall, nemico giurato dei palestinesi, ordinarono la guerra illimitata alle basi fedayyin e lo scatenamento del terrore nei quartieri dei rifugiati, le divergenze nell’OLP si approfondirono fino a divenire un contrasto aperto. Infatti, mentre l’esercito giordano dava la caccia ad Habasch e ad Hawatmeh, ossia ai dirigenti più noti del FPLP e del FDPLP, e su di loro veniva posta una taglia, Arafat trattava al Cairo con re Hussein. La trattativa scambiò il riconoscimento di un generico diritto all’autodeterminazione – quanti ne seguiranno! – con l’impegno a smobilitare le basi della guerriglia e a rinunciare a ogni propaganda rivoluzionaria. Ma l’Hanoi araba non finì in questo modo, perché l’accordo rimase sulla carta, e a Hussein, a Israele e ai loro protettori statunitensi occorse un anno di assedi, di esecuzioni e di rastrellamenti per togliere di mezzo quello sconvolgente Vietnam palestinese.
Il rovescio subito dalla Resistenza palestinese in Giordania ebbe ripercussioni drammatiche e sfavorevoli per gli sviluppi di un rivolgimento sociale e anticoloniale nell’area, poiché alla sconfitta militare e alla persecuzione dei guerriglieri palestinesi si accompagnò, e ne fu quasi un effetto, il colpo di stato in Siria, con il quale Assad tolse di mezzo gli uomini che si erano sbilanciati a favore di una Rivoluzione palestinese da lanciare attraverso la Giordania. Infatti, il presidente della Repubblica Atassi e il capo del governo Jadid, due figure emblematiche del socialismo arabo, che avevano accolto e sostenuto i combattenti palestinesi braccati dai legionari del re hascemita, e che erano stati sul punto di intervenire in Giordania a fianco dei fedayyin, furono gettati in prigione, dove rimasero per decenni, fino al termine delle loro forze e delle loro vite. Ma la conseguenza più sfavorevole fu il progresso del piano Rogers che, dopo la mattanza per procura che Hussein aveva compiuto a beneficio degli USA e di Israele, trovò inattese opportunità in Sadat, successore malleabile e opportunista di Nasser, e poté contare su una monarchia hascemita divenuta ormai il perno di importanti equilibri mediorientali. Il peso politico di Hussein era notevolmente aumentato, e la dimostrazione negativa di questo fatto fu la partecipazione di Arafat – in disaccordo con una parte di Fatah – al rituale diplomatico di una trattativa con le autorità giordane, esauritasi dopo alcuni inutili incontri a Geddah. Tuttavia, il logoramento diplomatico della Resistenza palestinese, da allora in poi, fu un gioco di sponda adottato da tutti gli stati imperialisti occidentali, nel segno del cosiddetto “processo di pace”, che la retorica giornalistica in Occidente cominciò ad associare al piano Rogers.
Questa ridefinizione imperialista e “israelo-centrica” di confini e di rapporti nell’area mediorientale, coinvolse Stati arabi reciprocamente litigiosi, nati da vicende e da congiunture molto diverse o addirittura opposte: rivoluzioni nazionali interrotte o snaturate e riassestamenti neocoloniali, modernizzazioni dall’alto promosse da élites militari più o meno antimperialiste e manipolazioni di influenti dinastie religioso-familiari ad opera dei vecchi colonialismi europei. Anche le borghesie nazionali di questi Stati apparivano più o meno, e diversamente, integrate nei circuiti capitalistici mondiali. Non stupisce quindi che Israele e gli Stati Uniti cercassero di blandire gli interessi e le rivalità delle classi dominanti arabe per isolare, una volta spento brutalmente il focolaio della Rivoluzione araba, la temuta Resistenza palestinese. La conferenza di Ginevra, che seguì la guerra dello Yom Kippur, riuscì, infatti, a nascondere i Palestinesi nelle risoluzioni 242 e 338 dell’ONU, facendone l’appendice di uno accordo generale e quindi subordinandoli alla trattativa sui i territori occupati da Israele nel 1967. In tal modo, la conferenza poté ignorare l’OLP. L’Unione Sovietica avallò la manovra, e così si chiuse quella fase ascendente della Rivoluzione palestinese, quel tentativo di convogliare sulla Palestina una lotta di classe internazionale. Tuttavia, più tardi, in Libano, lo sforzo ricominciò e la Resistenza palestinese fece franare rapporti economici e politici agglutinati su gerarchie etnico-religiose e su giri commerciali neocoloniali, per quanto la capacità di saldare la Rivoluzione palestinese con la Rivoluzione araba, perseguita dai gruppi di sinistra dell’OLP, si fosse nel frattempo indebolita, anche a causa della scarsa propensione di Al-Fatah a costruire alleanze di classe antiborghesi.
Fabula docet: questa storia, triste ed esaltante al tempo stesso, rivela una dimensione della lotta dei palestinesi che oggi sembra appartenere a un passato lontanissimo. Tuttavia, se ci poniamo la domanda “perché la Palestina resiste?” – una domanda che abbiamo sollevato in un precedente articolo, prelevandola e adattandola da un famoso libro di Jean Chesneaux sulle radici storiche della guerra anticoloniale del popolo vietnamita -, questa storia acquista uno speciale interesse. Essa rende tangibilmente afferrabile il motore sociale di ogni Resistenza e di ogni guerra di liberazione antimperialista, poiché lo mostra in alcune forme specifiche della lotta di classe nelle periferie coloniali. Infatti, la lotta di classe articola nel loro ordine i mezzi e i fini, seleziona le alleanze sociali, calibra i compromessi diplomatici, assegna i compiti, con le loro fasi, e distribuisce le funzioni, con i loro spazi. Si fa avanti, pertanto, una nuova prospettiva sulla Resistenza palestinese, nell’orizzonte della quale le svolte, i ripiegamenti, gli scivolamenti opportunistici e i ritorni della lotta di massa che hanno segnato il cammino accidentato e doloroso di un movimento popolare rivoluzionario, si collegano ai contrasti interni che, di volta in volta, lo hanno lacerato e riunito. Fino al declino e alla resa: gli accordi di Oslo, l’esplosione degli insediamenti israeliani nei vapori di un “nuovo processo di pace” e l’istituzione dell’ANP. Poi però sono venute tante altre cose e fra queste un’altra intifada. E’ ritornata la Resistenza e, insieme a essa, la promessa della Rivoluzione, anche se per ora questa Rivoluzione risiede soprattutto nella sua incredibile durata, nella saggezza della sua durata, nella capacità del popolo palestinese di risvegliarsi attraverso il suo passato. Nel presente però si avverte acutamente il vuoto delle parole, delle imprese e dei progetti di quel passato. Verranno reinventati?
2. Dove vanno le “borghesie nazionali”
Se il colonialismo delle guarnigioni e dei governatori, delle spie e delle grandi compagnie, prima di navigazione, poi di territori e di risorse sfruttabili, se il colonialismo dei monopoli commerciali e delle cannoniere che aprivano la strada alle merci europee, bombardando senza pietà chi rifiutava di acquistarle o le gravava di tariffe d’ingresso, se questo colonialismo, dalle tante sfaccettature e piuttosto longevo, è passato, nel XX secolo, nel neocolonialismo della cattura economica di Stati formalmente indipendenti a opera del FMI, in funzione di investimenti di capitale e del gigantesco circuito del prestito e del debito, polarizzati sui centri economici dell’Occidente capitalistico, questo passaggio è avvenuto – naturalmente in tempi storici molto diversi “da continente a continente” – anche attraverso lo sviluppo e il consolidamento di classi dominanti borghesi nella periferia coloniale, attraverso una borghesia divenuta, nel corso della decolonizzazione, o con la conquista dell’indipendenza politica, specificamente autoctona, cioè nazionale. Il colonialismo nel suo ultimo periodo, nel XXI secolo, e il neocolonialismo sono fasi storiche fluide e difficilmente separabili, poiché la tendenza all’espansione economica e alla costituzione di reti commerciali e finanziarie, quali strutture contigue al drenaggio di popolazioni, di suoli e di sottosuoli, accomuna i due successivi stadi della traiettoria contemporanea dell’imperialismo occidentale; e, in un processo tanto multiforme, i paesi colonizzati sono stati dissestati nei loro antichi ordini e riassestati in nuove gerarchie sociali, dalle quali sono scaturite le borghesie nazionali. I loro legami con l’imperialismo sono organici e provengono da un lungo passato. Le borghesie nazionali sono addirittura un prodotto storico dell’imperialismo.
Il ritratto di questa borghesia quale emerge dalle pagine dei maggiori scrittori militanti dell’anticolonialismo, dalle frequenti disamine sociali, economiche e culturali di uomini come Frantz Fanon e Carlos Mariategui, traspone sulle borghesie nazionali la parabola storica delle borghesie europee, finendo per suggerire paragoni fra le virtù imprenditrici della borghesia occidentale delle origini e la subalternità avida e faccendiera delle borghesie nazionali del mondo coloniale o post-coloniale. Tale confronto sembra smascherare una cattiva borghesia nazionale attraverso una borghesia rivoluzionaria energica e progressiva; per quanto la cattiva borghesia di Mariategui appaia come una classe semifeudale, completamente abbarbicata ai residui delle istituzioni coloniali, mentre la cattiva borghesia di Fanon appaia come una classe “intermediaria” di scambi con la metropoli imperialista, completamente appiattita nei meccanismi della circolazione delle merci. Anche le posizioni sull’utilità temporanea, e condizionata storicamente, di una borghesia dinamica orientata sulla produzione, simile a quella europea del XVIII secolo, non collimano completamente nei due critici dell’imperialismo, poiché mentre Mariategui ne rimpiange la mancanza in Perù, Fanon ne fa volentieri a meno per l’Africa, considerando, con più realismo di quanto si potrebbe immaginare, che il vuoto lasciato da questa classe inesistente nelle principali funzioni della nuova organizzazione economica dei paesi avviati alla decolonizzazione, sarà colmato dall’iniziativa sociale degli strati più bassi e sfruttati del popolo. In entrambi i casi, comunque, e al di là delle pur significative divergenze, la borghesia nazionale viene considerata come un indice di arretratezza, come uno strascico del passato coloniale e, in fondo, come un elemento irrazionale, per quanto ricorrente e tipico.
Al contrario, le borghesie coloniali sono un anello della catena imperialistica, per parafrasare, seppur con una certa libertà, il famoso punto di vista di Lenin. La loro posizione in un processo sociale di produzione e di distribuzione incardinato sulla “dipendenza” le rende, a tutti gli effetti, una forza motrice capitalistica del sistema internazionale del capitalismo metropolitano occidentale. Se, in analogia con quanto scriveva Sartre sul colonialismo francese, attribuiamo all’imperialismo neocolonialista il carattere di un sistema, allora, di questo sistema, le borghesie nazionali sono un’insostituibile giuntura funzionale. Esse, infatti, integrano le vecchie gerarchie coloniali indigene, vale a dire le stratificazioni sociali cristallizzatesi intorno al colonialismo di un tempo, e in quel tempo immobili e passive, in un nuovo tipo di economia, molto più dinamica e proiettata sul meccanismo mondiale dello scambio. Perciò, tali borghesie, pur rientrando in parte nei ruoli che Mariategui e, soprattutto, Fanon hanno attribuito loro, non sono completamente riducibili a quei ruoli, più o meno orbitanti sul vecchio colonialismo, ma appaiono invece come parti attive del riassetto neocoloniale delle forme imperialistiche di dominio.
Questa trasformazione è assai articolata e intreccia importanti connessioni. Infatti, attraverso gli interessi e le ambizioni della borghesia compradora, tutte le ex colonie, e anche tutti i “cortili di casa” assoggettati ai sevizi dei capitalismi industriali metropolitani, vengono riconvertiti in economie di esportazione polarizzate sulla metropoli imperialista, che in tal modo diviene il regolatore incondizionato della divisione internazionale neocolonialista del lavoro e della produzione, e impone, alle ex periferie coloniali, una riorganizzazione interna delle filiere economiche, delle infrastrutture e delle agglomerazioni urbane totalmente subordinata alle proprie priorità. Perciò, le ex periferie coloniali non perdono il loro carattere periferico, e rimangono, a tutti gli effetti, periferie coloniali, incatenate a un deperimento sociale e a un’umiliazione politica e culturale che costituiscono il retaggio del passato dominio. Anzi, le nuove forme di dominazione – denominate, di volta in volta, “Alleanza per il progresso”, “aiuti allo sviluppo” o “cooperazione internazionale” – hanno aumentato di intensità e di ampiezza i vecchi sconquassi, in proporzione alla crescente diffusione planetaria dei circuiti capitalistici e delle loro crisi. Le borghesie nazionali appartengono a questo desolato paesaggio storico.
Secondo Andre Gunder Frank, i cerchi concentrici delle economie subordinate alle strutture dell’accumulazione capitalistica marciante nella metropoli occidentale, dispongono ogni livello della produzione e ogni centro urbano su una linea di transito e di smistamento di merci, di materie prime e di forza lavoro che culmina nella devoluzione di ogni risorsa e di ogni manufatto ai mercati dell’area imperialistica nordamericana ed europea. Per questo, sempre secondo Gunder Frank, le propensioni economiche e politiche delle borghesie nazionali – in particolare di quelle latinoamericane – non sono inficiate da rapporti feudali ereditati dalla prima fase storica, monarchico-assolutistica, della colonizzazione; ma sono, al contrario, pienamente e coerentemente capitalistiche. A tutto ciò bisogna aggiungere un fatto così rilevante e così dirimente che proprio su di esso poggia la definizione storica della borghesia nazionale: lo Stato dei paesi ex coloniali che non hanno trasformato radicalmente i rapporti di proprietà e di produzione ereditati dal loro passato e che quindi hanno subito interrotto la decolonizzazione, è divenuto un possedimento esclusivo e una forza coercitiva della borghesia nazionale.
L’excursus sulle borghesie nazionali guarda alla Palestina. Qui, comunque, non c’è uno Stato post-coloniale nel quale la borghesia nazionale palestinese si sia potuta insediare, ma non c’è neppure uno Stato del popolo che diriga, entro le prospettive aperte dalle lotte di massa, il cammino della decolonizzazione. C’è invece un’amministrazione di nuovi notabili palestinesi che, ai piedi del potere militare ed economico israeliano, e scambiando con esso reciproci favori, consente a una borghesia che risiede prevalentemente all’estero – nel Golfo, in Europa e negli Stati Uniti – di procurarsi posizioni e piazze commerciali nelle aree che Israele ha affidato alla sorveglianza di tale amministrazione e che, prima della svolta del 7 Ottobre 2023, e della controffensiva della Resistenza, costituivano la base angusta e “striata” di un promesso, indefinito e sospeso Stato nazionale dei palestinesi. I giri economici dell’intermediazione capitalistica, nei quali Fanon individuava il tratto ricorrente e l’opportunità più vantaggiosa delle borghesie nazionali, sono un importante campo di attività anche per la borghesia palestinese, ma senza le strutture finanziarie di uno Stato le sue influenze sono limitate e i suoi mezzi sono monchi.
In questo caso, quindi, il problema della borghesia palestinese è quello del vuoto statale, e senza uno Stato post-coloniale che forgi gli anelli necessari per saldare le attività, gli interessi e i patrimoni di una borghesia nazionale alla catena imperialistica, questa borghesia nazionale manca di un elemento decisivo della sua organizzazione di classe. Ma quale tipo di Stato può divenire il canale politico e lo strumento della borghesia palestinese? La risposta, alla luce del ragionamento svolto, viene spontanea: le serve uno Stato che non persegua in modo coerente e completo la decolonizzazione della Palestina. Infatti, una malleabilità della società e dell’economia talmente estrema da renderle adatte alle funzioni subalterne imposte loro dagli ingranaggi dell’economia-mondo capitalistica, richiede inflessibilmente il “proseguimento della colonizzazione con altri mezzi”. Inoltre, la scomposizione del ciclo produttivo che influenza sempre più il congegno imperialistico della dipendenza, coinvolge le borghesie nazionali nell’apprestamento delle famigerate maquilladoras, e una tale tetra condizione incomberebbe su uno Stato palestinese sopravvivente ai margini di una Palestina ancora colonizzata. La cosiddetta “soluzione a due Stati” della fine degli anni Ottanta andava già in questa direzione, ed era una direzione che la borghesia nazionale palestinese poteva approvare senza riserve. Oggi, dopo Oslo e dopo le devastazioni della pax americana – negli anni della corsa israeliana agli insediamenti sotto le insegne del “processo di pace” -, la formula “due popoli due Stati” indica il punto di sutura tra la borghesia palestinese e il neocolonialismo.
Tuttavia, la borghesia palestinese, come ogni borghesia nazionale della periferia coloniale, è socialmente stratificata, e di conseguenza è anche divisa internamente da interessi diversi e da condizioni di vita eterogenee. Notabili e imprenditori, ricercatori universitari e funzionari di enti internazionali, uomini d’affari e piccoli commercianti formano un campo sociale variegato, dal quale non possono che emergere orientamenti politici divergenti. Anche per questo Al-Fatah, l’organizzazione della Resistenza palestinese che, per un lungo periodo, ha influito maggiormente sugli orientamenti dell’OLP, ha spesso oscillato fra la ricerca di riconoscimenti diplomatici e di alleanze statali, da un lato, e le svolte rivoluzionarie che riunivano i palestinesi alle classi sfruttate e diseredate, dall’altro. Infatti, se in Giordania Fatah si disinteressò di alleanze di classe che, in quel frangente, spingevano verso una rivoluzione anticoloniale socialista, in Libano, alcuni anni dopo, queste alleanze, seppur in modo frettoloso e carente, furono allacciate, e la Resistenza e i suoi alleati vennero sconfitti soltanto dalla disparità fra le loro forze e quelle della coalizione nemica. I compromessi comunque ripresero e questi movimenti ondulatori di Fatah, nei quali si rispecchiavano i fini pratici e le ideologie delle varie componenti della borghesia palestinese, sono sfociati più tardi, dopo aver attraversato due grandi intifade e la capitolazione di Oslo e del dopo Oslo, nel completo asservimento dell’ANP allo Stato israeliano. Oggi, la borghesia degli affari palestinese e l’ANP avanzano paralleli, anche perché quest’ultima è in parte costituita dalla borghesia inserita nelle reti di solidarietà internazionale.
Per la comprensione delle forme della lotta di classe in Palestina, questa correlazione tra una decolonizzazione regredita e finita nelle sabbie del neocolonialismo e una borghesia nazionale in cerca di uno Stato succube, larvale e di facciata – per il momento preconizzato dall’ordine politico dell’ANP -, è un buon osservatorio. Lo è in quanto la linea dei due Stati – tanto nella sua mancanza di realismo, quanto nel suo iper-realismo minimalista – è l’orientamento che, nella obliterazione della prospettiva rivoluzionaria della decolonizzazione della Palestina, mostra la confluenza della borghesia palestinese nelle tipiche tendenze storiche delle borghesie nazionali. Le ripulse nei confronti dell’ANP che sono emerse, all’inizio, dalle file di Fatah, e la conseguente ripresa, da parte di nuovi gruppi, della lotta armata contro l’occupazione israeliana, provano che le tensioni interne a questa storica formazione della Resistenza palestinese non sono affatto spente. Infatti, le contraddizioni sociali e ideologiche fra i vari strati della borghesia palestinese non si sono acquietate nel segno dell’appeasement neocoloniale. Il rovesciamento dell’assetto istituzionale, militare e diplomatico di questo appeasement è avvenuto il 7 Ottobre 2023, e per quanto la furiosa reazione genocida dello Stato israeliano tenda a provocare un conflitto militare regionale, le alleanze sociali e politiche di una guerra di liberazione anticoloniale della Palestina, dopo quella rottura irrevocabile, possono riformarsi e svilupparsi. Per essere tale, questa lotta popolare non può non guardare alla prospettiva di una Palestina unificata, plurinazionale e senza suddivisioni negoziate, vigilate e militarizzate. Non due Stati asimmetrici che perpetuino le tante colonizzazioni della Palestina, ma un unico Stato che sostituisca Israele, piazza d’armi, snodo economico e laboratorio di tecniche contro-insurrezionali dell’imperialismo occidentale; questa è la prospettiva che può aprirsi ad una Resistenza palestinese che scavalchi la propria borghesia nazionale.
3. Con il sangue agli occhi: George Jackson in Palestina
Quando George Jackson fu ucciso, nell’Agosto del 1971, a San Quintin, da una guardia carceraria, la ritirata dei fedayyin dalla Giordania era ormai l’esito inevitabile di un anno di combattimenti fra i guerriglieri palestinesi e le ben armate truppe giordane, spalleggiate da Israele e protette a distanza dalla logistica di una portaerei statunitense. In quel periodo si chiudeva il più importante tentativo palestinese di accerchiare lo Stato sionista, scalo economico e avamposto militare della metropoli imperialista occidentale in Oriente, avanzando verso di esso e colpendolo da territori impervi e adatti alla guerra partigiana, e soprattutto organizzando e integrando in una comune lotta di massa i profughi palestinesi, i lavoratori salariati e semioccupati delle città e le masse rurali arabe, i fellahinpalestinesi e giordani. Il Vietnam e la Rivoluzione cinese erano, in tutti i focolai rivoluzionari del mondo, una fonte inesauribile di insegnamenti che univano e opponevano, in una dialettica sottile ricavata da Mao, città e campagna, metropoli imperialistica e mondo coloniale; e anche la Rivoluzione palestinese progettò una lotta che coalizzasse, collegasse e aggregasse, attraverso una simile trasposizione spaziale dello scontro, le classi sociali oppresse di una vasta area geografica in una comune guerra anticolonialista. La Rivoluzione fu sconfitta, si sa, ma non fallì, come fu provato sul campo dalle sue onde sismiche, ossia dagli scioperi e dalle occupazioni di stabilimenti siderurgici che divamparono in Egitto e che furono subito soffocati da Sadat.
Questo tragico epilogo di un episodio rivelatore ed emblematico della lunga vicenda della Resistenza palestinese, si consumava proprio quando George Jackson, un personaggio altrettanto emblematico della lotta rivoluzionaria antimperialista, un uomo che avrebbe potuto parlare proficuamente e calorosamente ai palestinesi, e che, senza averli mai conosciuti, indirettamente li comprese e li consigliò, veniva assassinato con un colpo alla schiena sparato a bruciapelo da un agente di San Quintin, dopo che, per anni, il micidiale apparato penitenziario degli Stati Uniti aveva tentato, con le celle d’isolamento e con le trappole quotidiane della vita carceraria, di sbarazzarsi di lui. Jackson era stato condannato al carcere a vita, a 18 anni, per la partecipazione a un furto di 70 dollari, e una tale mostruosa condanna si era avvalsa di una legge penale che rimetteva la decisione sul prolungamento o sull’interruzione della detenzione alla valutazione di un’apposita commissione. Era una legge fatta apposta per annientare la “Colonia Nera” interna agli Stati Uniti, per dirla con il nome coniato dal Black Panther Party. George Jackson, come tanti altri giovani neri, emarginati, schiacciati e pieni di rabbia, cadde in mano ai tribunali di uno Stato in guerra contro la sua colonia interna e subì quell’assurda condanna. In carcere, prese coscienza, lesse molto, incontrò il marxismo e la letteratura anticolonialista e cominciò a lottare per tutti. Per questo, non fu più rilasciato, era diventato pericoloso. Dopo dieci anni trascorsi tra Soledad e San Quintin, venne assassinato. Gli spararono proprio quando, molto lontano da lì, finiva l’Hanoi araba.
La colonia interna è una condizione inusitata in un paese imperialista, e negli Stai uniti – o, come scrivono Jackson e le Pantere Nere, nell’amerika – i soli neri, nel ramificato sistema delle ghettizzazioni etniche, hanno assunto, anche a causa delle loro rivolte e delle loro resistenze, questo singolare contrassegno di estraneità collettiva. L’espressione, tuttavia, è nata dalla coscienza anticoloniale dei rivoluzionari neri che l’hanno inventata per rovesciarne il significato, ossia per smascherare la scena ideologica dei diritti civili e per fare del segno negativo di quel nome il passaggio dialettico verso una sollevazione mondiale in corso. Una colonia interna è una periferia coloniale situata nel perimetro della metropoli imperialista, anche se la sua funzione nei processi dell’accumulazione capitalistica è diversa da quella dei cosiddetti “paesi d’oltremare”, relegata com’è nei consumi del sottoconsumo e nei flussi della forza-lavoro. Ma il tratto specifico della colonia interna è costituito dalla violenza legale preventiva del potere statale, o, per meglio dire, dalle forme molecolari di contro-guerriglia che gli apparati di Stato promuovono e alimentano incessantemente. La storia di George Jackson è, a tal proposito, esemplare. Per questo, le affinità tra la parabola della “Colonia Nera” e le vicissitudini della colonia interna palestinese di Israele, soprattutto in relazione alle condizioni della lotta – ai rischi estremi e alle opportunità dirompenti da essa inseparabili -, sono piuttosto marcate, per quanto i palestinesi, a differenza dei neri dei ghetti amerikani, si collochino – asserviti, espropriati, deportati e sterminati – sia all’interno che esterno di una metropoli storicamente ibrida, di una metropoli, cioè, che è al tempo stesso amministrazione coloniale dell’imperialismo occidentale e centro imperialistico di riciclaggio di ricchezza sociale. Inoltre la borghesia nera statunitense – nemica giurata della Colonia Nera – non ha niente in comune con le borghesie nazionali emerse ed emergenti all’inizio delle decolonizzazioni, ma è a tutti gli effetti una borghesia imperialistica.
Tuttavia, è una sorta di equivalenza fra classe proletaria e popolo che sia i palestinesi che gli ambienti sociali dei neri della colonia americana rendono tangibile a causa della loro comune dipendenza da un tipo sfruttamento e di espropriazione inquadrato e scandito dai divieti, dai vincoli e dai comandi di una sorveglianza razzialmente o etnicamente gerarchizzata. In breve, è il “mondo coloniale” analizzato da Fanon che dà corpo e sangue a quell’equivalenza, cosicché quasi tutta la popolazione assoggettata e spremuta di lavoro vivo e di mezzi sociali, ossia quasi tutta la popolazione in generale, si proletarizza, e al tempo stesso questa massa proletaria, o semi-proletaria, razzializzata diviene, nel rifiuto di una condizione di sottoumanità, popolo che lotta. Per questo, quando Jackson salta linguisticamente dalla Colonia Nera al popolo e fa della Guerra di Popolo il terreno storico del suo appello politico, i movimenti radicali dei neri americani e le lotte anticoloniali in tutto il mondo uniscono i propri orizzonti. Ma allora viene da chiedersi quanto di quel trasformarsi delle classi subalterne delle colonie in un popolo che insorge e che intraprende una guerra di liberazione, quanto di quella impensata dinamica storica dei rapporti di classe, riconosciuta e annunciata da George Jackson, ritorni, cinquant’anni dopo la sconfitta della Colonia Nera americana, nella più lunga Resistenza anticoloniale, nella Resistenza palestinese.
Una tale combinazione non è nuova nelle rivoluzioni anticoloniali, ma in questo caso, nel corto circuito tra Jackson e la Palestina, l’originalità risiede nel carattere proletario del popolo, di un popolo che non è più lo stagno melmoso degli affogamenti nazionalistici delle differenze di classe a beneficio della borghesia nazionale, ma che è, invece – per parafrasare Sartre e Fanon – il simbolo del riscatto dei “sottouomini”, in lotta per la conquista – nella violenza rivoluzionaria – della loro umanità. La composizione di classe del popolo palestinese, da noi analizzata, con più o meno accuratezza, nei precedenti testi, è certamente un’importante cartina al tornasole per comprendere le condizioni sociali di vita degli strati più bassi del popolo, i quali, infatti, a eccezione dei nuovi notabili e di pochi impresari commerciali, non sono coinvolti nei meccanismi capitalistici che hanno ritagliato un ruolo ed hanno assegnato sedi internazionali alla borghesia palestinese; ma tuttavia non è attraverso la composizione di classe che si può comprendere, direttamente e in prima istanza, la dinamica di una lotta di classe, quella sviluppata dal popolo palestinese, che muta, nel contesto coloniale dal quale scaturisce, i connotati storici della classe oppressa in lotta. In fondo, la lotta fa la classe almeno quanto la classe fa la lotta, e l’oggettivo e il soggettivo si scambiano continuamente – e dialetticamente – le proprie funzioni. Così, tanto nelle insubordinazioni e nelle sollevazioni della Colonia Nera americana quanto nelle intifade e nelle guerriglie del popolo palestinese, la classe ha assunto le sembianze del popolo, ha agito come popolo.
Anche le strategie e le tattiche della lotta tracciano linee convergenti fra i piani di Jackson e la Palestina. E anche qui con un capovolgimento, poiché quello che Jackson scrisse per la Colonia Nera, è riemerso, in forme diverse, in Palestina. Infatti, quelle azioni, quelle imprese prima di gruppo e poi di massa, quegli atti dimostrativi e inibitori delle folle bianche, che George Jackson ritenne possibili ed efficaci negli Stati Uniti, che non ebbero, né lì né in altri luoghi delle metropoli imperialiste, uno sbocco politico adeguato, che non ampliarono il fronte della lotta, sono state, come “propaganda del fatto”, come irruzioni inattese in luoghi sicuri e fortificati di Israele, avvenimenti aggreganti in Palestina e provocazioni utili e sconvolgenti per i popoli europei. Jackson propugnava il sabotaggio degli apparati delle telecomunicazioni, esortava a compiere incursioni armate urbane per interrompere il corso della vita quotidiana capitalistica, degli affari e dello sfruttamento del lavoro sociale ed evocava lotte e scioperi volti a inceppare o a bloccare le articolazioni dell’economia nazionale, ma la gerarchia sociale razzializzata dell’ordine amerikano non vacillò. Al contrario, la stessa strategia, seguita dalla Resistenza palestinese – con varianti proporzionate alla “dismisura” del terrore coloniale scatenato da Israele -, ha fatto deragliare la vita sociale ed economica nello Stato israeliano dai binari di una normalità indifferente alla violenza e all’ingiustizia sulle quali essa riposava. La periferia coloniale si è rivelata più adatta dello spazio urbano per una mobilità ubiquitaria delle azioni di guerriglia, per il foco cubano di Fidel e del Che, che Jackson voleva trasportare nel disordine della città capitalistica, secondo lui più adatta ad agguati e più ricca di nascondigli. La Palestina, che riunisce le caratteristiche della periferia coloniale, per i palestinesi, e della metropoli, per gli israeliani, e le compenetra in profondità, ha permesso anche la reinvenzione del foco, con i suoi spostamenti e con la “disseminazione” dei combattimenti. Ma, come si comprende agevolmente, tutte queste tecniche traggono la loro forza da un unico elemento e sulla base di un unico elemento vanno incontro alla riuscita o al fallimento. Questo elemento, che Tolstoj ha vivamente riconosciuto e artisticamente rappresentato, intuendone a modo suo la fonte contadina, è la Guerra di Popolo.
La contro-violenza teorizzata da Jackson, e da quest’ultimo appresa – naturalmente con innesti originali – da Mao, da Fanon e da Che Guevara, ha dato impensati frutti nella lotta anticoloniale dei palestinesi. A questa lotta anticoloniale, che è lotta di classe come lotta di popolo, si addice anche il segno corporeo più intenso della contro-violenza: il sangue agli occhi. In questo segno la contro-violenza dà espressione alla negazione che strappa il sottouomo alla sua sottoumanità, la palesa come umanesimo. In Jackson “il sangue agli occhi” è un’immagine scaturita da un ricordo doloroso, dal ricordo del fratello Jonathan, ucciso nel tentativo disperato di liberare George. Nei palestinesi il “sangue agli occhi” non è altro che una delle tante risposte – se risposte si possono chiamare – alla domanda, che già ci siamo posti, e che continua a proporre prospettive e segnali: “perché la Palestina resiste?”. Ma, al di là di queste corrispondenze e sfasature tra la Colonia Nera americana sconfitta e la Rivoluzione palestinese sopravvivente al genocidio che si sta consumando in Palestina, il “sangue agli occhi” è un appello alla coscienza di ogni uomo, perché dice come dovrebbe essere guardato l’imperialismo occidentale.
Ma la guerra di Popolo come contro-violenza molecolare, in quanto unifica le classi più povere e più esposte alla deformazione concentrazionaria della vita quotidiana della colonia, richiede, per il passaggio dalla guerriglia diffusa all’azione di massa, un’avanguardia politica, un’organizzazione dirigente ed educatrice che distilli le necessità quotidiane della lotta e ne sviluppi le potenzialità ideologiche, rafforzandone le istanze di classe e orientandole verso una prospettiva universale di emancipazione umana. Se, come in Palestina, l’anticolonialismo racchiude in sé rapporti di classe che sorpassano i limiti in cui la borghesia palestinese, più o meno favorita dalle iniziative diplomatiche dei BRICS – e mirando semplicemente a “risolvere” una situazione cronica di conflitto -, cerca di rinchiudere le organizzazioni palestinesi, allora la Resistenza necessita di istituzioni e di mezzi, sia politici che culturali, capaci di protrarre e di promuovere quella Rivoluzione che in essa è storicamente e socialmente all’opera. La lotta di classe, come sa ogni marxista, pur derivando da stati di cose economici, è assolutamente politica, e anche per questo, rispetto alla Palestina, la base di classe della guerra popolare viene persa di vista ogniqualvolta la specificità e l’autonomia della Resistenza palestinese viene subordinata a scontri militari regionali e ad accordi internazionali che, per quanto largamente influenti sulle vicende della Rivoluzione palestinese e in alcuni casi convergenti con i suoi interessi, sono tuttavia a essa esterni e a essa eterogenei per origine e per intenti. Pertanto la questione dell’avanguardia, che assillò anche la Colonia nera alla quale guardava Jackson, si impone con forza alla Resistenza palestinese, nella quale Hamas, al termine di un lungo periodo di sconfitte, di interferenze esterne e di opportunismi che hanno disgregato, in successione, l’OLP e Al-Fatah, ha soltanto surrogato una funzione vacante, riempiendo, pragmaticamente e ideologicamente, un vuoto sociale e politico drammatico.
E’ questa la ragione principale della diffusione di Hamas, che certamente dispone di relazioni e di appoggi nella borghesia palestinese non inferiori a quelli dell’ANP, o a quelli su cui in tempi più lontani potevano contare ampi settori di Fatah. Con la preminenza organizzativa di Hamas in Palestina, i simboli religiosi mussulmani nelle manifestazioni, nei raduni e nei riti collettivi – spesso martiriologici, a causa dell’accanita e devastante caccia israeliana ai capi della Resistenza – hanno acquistato una rilevanza prima sconosciuta ai palestinesi. Ma la situazione presente e la storia palestinese rendono perspicue – al di là del riemergere di epopee nazionali connotate religiosamente, a volte abbracciate da gruppi di popolazione perché necessarie a sostenere una lotta sempre più esigente ed estrema – forme di comportamento sociale e orientamenti politici e culturali derivanti dalle peregrinazioni, dalle battaglie e dagli esili che hanno dato espressione e coscienza a un popolo trascinato in una tenacissima guerra di liberazione. E questo piano dell’esistenza del popolo palestinese scavalca e relativizza Hamas, che, proprio per le sue caratteristiche, non può assolvere i compiti dell’avanguardia politica che la forma trasversale e indiretta della lotta di classe in Palestina richiede. Questa lotta, che ha assunto il carattere di una sfida epocale all’imperialismo occidentale, ha bisogno, infatti, di una direzione capace di sciogliere il movimento resistenziale palestinese dai vincoli, interni ed esterni, nei quali la borghesia nazionale cerca di impigliarlo. Soltanto il FPLP potrebbe, nella situazione attuale, riuscire nell’impresa.
Le dimensioni, calcolate elettoralmente, del FPLP non contano nulla; non da esse dipende l’egemonia e la capacità di direzione di un “partito” rivoluzionario. Ciò non significa, ben inteso, che il FPLP sia oggi il catalizzatore di azioni collettive molecolari di guerriglia, di resistenza o di sabotaggio, che, al contrario, appaiono piuttosto spontanee, o perlomeno inventate con materiali e in luoghi del tutto casuali, come farebbe un bricoleur, o come farebbe il nomade della macchina da guerra di Deleuze e Guattari. Il ruolo ipotetico – o addirittura immaginario – di avanguardia, il FPLP lo merita, soprattutto, perché incarna, sul piano politico, il nesso più corposo fra il passato e il presente del popolo palestinese. Di un tale nesso anche Hamas ha avvertito tutta la portata politica, e lo ha elaborato fondendo ideologia nazionale ed Islam. Ma soltanto un’avanguardia che sappia raccogliere l’eredità delle correnti più radicali dell’OLP può indicare prospettive anticoloniali autentiche, cioè basate sull’influenza decisiva dei rapporti di classe; e sebbene il FPLP non sia oggi, in Palestina, l’organizzazione politica e guerrigliera più provvista di mezzi, essa è il potenziale centro di aggregazione di un progetto politico mirante a dare un volto sociale, plurinazionale, democratico e popolare ad una Palestina interamente decolonizzata. Forse per osare uno sguardo che si spinga al di là dello Stato sionista, che ogni giorno nasconde la sua crisi storica e politica nelle esplosioni del suo furore omicida, serve una buona iniezione di passato. L’abbiamo cercata. Ma con il sangue agli occhi.
4. Nota conclusiva
Ricordando George Jackson, si è fatta avanti, anch’essa provenienteda anni lontani, una giovane donna palestinese, rivoluzionaria combattente, Leila Khaled. Leila Khaled, compagna di lotta di Jurj (George) Habasch, prese parte, con un ruolo preminente, alle prime azioni dimostrative della Resistenza, quando occorreva attirare sul popolo palestinese l’attenzione, fino ad allora neghittosa, renitente e diffidente, delle fasce sociali medie delle società occidentali, e, al tempo stesso, occorreva rendere meno timida la solidarietà attiva dei movimenti antimperialisti della metropoli capitalistica. Così Leila Khaled, dirottò, per due volte, grandi aerei di linea. In entrambi i dirottamenti i passeggeri uscirono senza un graffio, e chi sparò, nel secondo dirottamento, furono gli agenti della compagnia. Lasciamo qui questa storia, perché non è il caso di comporre biografie. In anni recenti, ed anche dopo il 7 Ottobre del 2023, la Khaled è venuta in Italia, invitata da comitati studenteschi o da comitati di solidarietà con la Palestina. Quello che è stato scritto in queste circostanze dà all’espressione “caccia alle streghe”, nel suo significato proprio e traslato, antico e moderno, tutto il suo cupo colore e rende palpabile quel rancore vendicativo da linciatori compulsivi che a volte si ritrova nei film di Fritz Lang.
La storia di Leila Khaled, anche nell’odio dei nostri comuni nemici, ci invita a riscoprire quella Resistenza palestinese di cui abbiamo voluto tentare un ritratto. Questa Resistenza è la matrice della paziente e tenace Rivoluzione palestinese. La formula Asse della Resistenza non le rende giustizia, poiché proietta la Palestina in un campo di forze e di relazioni che possono giungere a includere l’ultrareazionaria teocrazia iraniana e che fanno del popolo palestinese il crocevia di interferenze diplomatiche ed economiche facenti capo principalmente alla Cina. Ciononostante tutti questi interventi, mediazioni e supporti sono un aiuto indispensabile per una lotta rivoluzionaria anticoloniale che l’imperialismo occidentale, per mano della sua “guardia bianca” Israele, vuol liquidare attraverso un genocidio. Inoltre, in questo contesto di alleanze, di scambi e di convergenze non tutti gli attori sono dello stesso tipo – le milizie e gli Stati sono molto diversi, tanto per limitarsi a una differenza molto generale -, e anche le loro posizioni e i loro intenti nei confronti della Resistenza differiscono. Da tutto ciò scaturisce una vistosa contraddizione: da un lato, le origini e le prospettive anticolonialiste e di classe della Guerra di Popolo palestinese seguono il loro corso, dall’altro, il quadro militare e diplomatico di un conflitto regionale che Israele ha fatto di tutto per scatenare, può favorire la “causa” palestinese, pur mettendone le sorti in mano altrui.
Ogni marxista sa che le contraddizioni, se riconosciute e interrogate, tracciano, sciogliendosi, il cammino della “prassi” trasformatrice. In questo caso è a Mao che occorre rivolgersi. Mao, infatti, ricava un importante criterio di discernimento – per stringere alleanze temporanee e per combattere i tanti nemici di classe – dalle contraddizioni antagonistiche tra la borghesia imperialistica e le altre borghesie, e incrocia poi queste contraddizioni con le contraddizioni tra quelle borghesie e il proletariato, ricercando, nelle situazioni storiche e sociali dove insorgono le contraddizioni, la contraddizione principale, ossia la contraddizione che permette al partito rivoluzionario di affrontare il suo nemico principale avvalendosi di tutti gli alleati utili e possibili. Così, da situazione a situazione, l’alleato di oggi sarà il nemico di domani, e potremmo dire, correggendo un po’ l’ottimismo progressista di questa teoria, il nemico di ieri può essere l’alleato di oggi, naturalmente temporaneo. Questa scala dialettica di lotte e di alleanze richiede, soprattutto, un’analisi della posizione delle classi rispetto alla borghesia imperialistica che è il nemico permanente e fondamentale del proletariato. Se nel ragionamento di Mao, dove il marxismo ed Hegel vengono trasposti in una sublime forma taoistica, facciamo entrare i popoli e gli Stati – e magari tante altre cose – allora con tale ragionamento si può comprendere, e sciogliere, il nodo delle alleanze palestinesi, in uno scontro che tende ad assomigliare sempre più a un “finale di partita”.
Se ci chiediamo, sbigottiti e trepidanti per quello che sta accadendo in Palestina, perché quegli avvenimenti ci assillano così ossessivamente, viene subito da pensare che le vicissitudini, i drammi, gli esodi, ma anche le imprese, le difese, i progetti e, perché no, il coraggio antieroico della Resistenza palestinese hanno costituito uno dei più importanti sfondi morali della nostra formazione, mescolandosi con le nostre letture, con le nostre svolte politiche, con le nostre delusioni, con i nostri furori etici e con i nostri amori. Questo non significa affatto che la Palestina sia un comodo surrogato delle rivoluzioni che non abbiamo fatto. Si potrebbe dire, invece, che si tratta del contrario. Comunque, per questo sentimento, che forse è preferibile chiamare situazione umana, è meglio affidarsi a uno dei nostri più discreti maestri. Franco Fortini si trovava in Cina, nei primi anni Settanta, quando scrisse queste parole: “Perché ero là? Che senso aveva quel che stavo vivendo? Nella vicina città dopo le stragi di un assedio che a suo tempo il mondo occidentale ignorò affatto, la giovane e amata moglie di Mao era stata decapitata. In quell’anno, nel mio ginnasio fiorentino stavano insegnandomi a tradurre Tito Livio e Sallustio. Nella vicina città, il presidente Mao aveva studiato e insegnato. Anzi quella medesima mattina eravamo tutti stati in rispettosa visita a vari luoghi memorabili. Ma perché ero là? Con la mia vita come potevano avere a che fare quei luoghi? E di causa in causa mi pareva di intendere chiaro che essi veramente a che fare con noi avevano avuto da sempre”.