
di Jacques Bonhomme
1. Tra passato e presente: “il punto di vista di classe”
Le locuzioni che fanno parte del vocabolario marxista novecentesco, di quel marxismo che è stato la lingua parlata e accomunante – pur con tutti i suoi dialetti – delle Rivoluzioni che vi hanno preso avvio, si usano spesso con timida circospezione, con molta esitazione e quasi chiedendo il permesso. La formula “punto di vista del proletariato” entra subito e facilmente in questo repertorio. E quindi, per poterla recuperare, per poterla incorporare in una “lingua ritrovata”, in una lingua che articoli le pratiche delle lotte sociali e politiche, serve, ineludibilmente, uno sforzo di traduzione. In prima istanza, traduzione da un libro cruciale, da Storia e coscienza di classe di György Lukács, del quale il concetto di “punto di vista del proletariato” è l’architrave filosofico. In seconda istanza, traduzione dai contesti in cui quella teoria di Lukács e importanti forze storiche si sono vicendevolmente rispecchiati e più o meno direttamente sostenuti.
Qualunque sforzo è tuttavia un prezzo sempre troppo basso in proporzione all’importanza dei problemi, dei contenuti teorici e delle prospettive pratiche che l’espressione e, inseparabilmente, il concetto di “punto di vista del proletariato” hanno seminato durante un lungo tempo storico, dalla Terza Internazionale all’emergere del cosiddetto “marxismo occidentale”, dai movimenti studenteschi a Fanon. Infatti, le traduzioni sono avvenute attraverso le pratiche, poiché le continuità hanno beneficiato delle critiche e le situazioni hanno incessantemente riconvertito le idee. Comunque, non è mai crollato il ponte filosofico tra il “punto di vista di classe”, che altro non è che il modo di conoscere il mondo sociale nella sua storicità – la coscienza di esso -, e la classe antagonistica della borghesia imperialista; per quanto quella classe non abbia più il volto del proletariato della guerra civile rivoluzionaria degli anni Venti, delle Repubbliche dei Consigli in Germania e in Ungheria e del Biennio Rosso in Italia.
La questione chiave ha scavalcato tuttavia lo stesso Lukács, che, in modo semisincero, rinnegò quell’opera. I nodi controversi erano questi: la classe chiamata in causa come detentrice di un punto di vista dirimente, il proletariato, aveva bisogno, fin dall’inizio, di essere proiettata, al di là della sua realtà, nel mutevole orizzonte delle sue svolte sociali, di venir colta nel passaggio, drammatico e incerto, dalla negatività della sua condizione alla positività della sua presa di coscienza, di essere investita del compito di spezzare il feticismo del pensiero borghese (quello quotidiano e quello scientifico) e infine di venir collocata in un ampio e contraddittorio processo di formazione e di educazione rivoluzionaria (mediato, per Lukács, dal partito leninista). Queste qualità della classe hanno tracciato la via a un umanesimo rivoluzionario che le ha fatte rinascere in altri luoghi e sotto altre sembianze. Esse sono state il sottofondo antropologico di differenti costellazioni storiche di rapporti di classe, al punto che Edward Said ha potuto evocare somiglianze profonde tra la situazione di classe del progetto rivoluzionario di Lukács e la situazione coloniale del progetto rivoluzionario di Fanon. Le somiglianze, in questo caso, non sono obliterate dalle parole, del resto molto diverse, di Lukács e di Fanon.
Ma che cosa significa, considerato nella sua pregnanza teorica e pratica, “punto di vista del proletariato”? E inoltre, quale slittamento interpretativo e quale recupero pratico racchiude, rispetto a esso, la locuzione “punto di vista di classe” che intendiamo programmaticamente abbracciare? Perché, infine, il punto di vista di classe, che vogliamo perorare come irrinunciabile criterio conoscitivo delle tendenze storiche delle forze sociali, che consideriamo il polo di gravitazione del materialismo storico, ha bisogno di ricalcare le linee del lukácciano “punto di vista del proletariato”, per ricevere in quest’ultimo un’adeguata fondazione? Si potrebbe poi aggiungere la domanda in cui tutte le precedenti questioni sfociano e che è quella concernente la praxis, concernente cioè gli allargamenti del campo delle pratiche di lotta, di educazione e di propaganda che una salda acquisizione del “punto di vista di classe” consente nell’attuale congiuntura storica. Tuttavia tale domanda è qui soltanto un’indicazione riguardante i prevedibili sviluppi del tema che abbiamo iniziato a trattare, e pertanto per il momento deve essere lasciata da parte. Naturalmente, fermo restando che il concetto di “punto di vista di classe” – o, risalendo alla matrice lukácciana, il concetto di “punto di vista del proletariato” – verte su un “problema pratico”, e mostra con grande chiarezza che la “verità di un pensiero” è di carattere eminentemente pratico, per dirla con il Marx della Seconda Tesi su Feuerbach.
Torniamo allora al “punto di vista del proletariato” in Storia e coscienza di classe. Innanzitutto questo punto di vista denuncia gli inganni dell’“immediatezza”, ossia dell’immergersi nella singolarità dei fenomeni sociali, alla quale il proletariato si sottrae seguendo un suo intento connaturato, coltivando una disposizione che proviene dal suo essere sociale, in quanto classe disumanizzata dal lavoro capitalistico. Infatti, la salvezza dialettica dai dati fissi e irrevocabili dell’immediatezza è l’accesso ai fattori, alle cause e ai rapporti molteplici e multilaterali che dentro i fenomeni sociali si concentrano, convergono e si disperdono, facendo sì che gli avvenimenti e le strutture delle società di classe nella storia assumano le loro peculiari configurazioni. Quindi, l’interno dei fenomeni sociali – crisi economiche, manovre diplomatiche, guerre imperialistiche, rivoluzioni ecc. – sta sempre al di là dell’immediatezza – nella quale si hanno di fronte, per esempio, leggi e istituzioni a tutto tondo, da accettare e da rispettare -, ed è, nel linguaggio hegeliano e marxista largamente usato in Storia e coscienza di classe, la “mediazione”, o, con altre parole, l’essenza del fenomeno. Infatti, Marx aveva scritto che se il fenomeno e l’essenza coincidessero ogni scienza sarebbe inutile. Così, la genesi delle forme di produzione, dei poteri e delle istituzioni che costituiscono il terreno della contrapposizione delle classi sociali, chiama in causa la “mediazione”, che può dar conto della natura sociale delle strutture e dei fatti, risolvendoli nei processi contraddittori dai quali sono scaturiti. Per questo, “immediatezza” e “mediazione” sono divenute parole chiave della dialettica marxista. Lukács ne fa un aspetto decisivo del “punto di vista del proletariato”. E inoltre, come ignorare che lo sguardo che riconosce e risale le mediazioni, che sa sciogliere l’apparente stabilità di ciò che è isolato, è affine alla facoltà di riunire in un’unica prospettiva molti anelli della catena imperialistica, una facoltà molto apprezzata da Lenin. Con questa analogia, la “mediazione” si rivela definitivamente la via principale verso il concetto più comprensivo e più ricco della coscienza di classe proletaria delineata da Lukács: il concetto di totalità.
La conoscenza della totalità sociale contrasta le esasperate tendenze, proprie della modernità borghese, allo spezzettamento dei campi di ricerca scientifici connessi con la società e con la storia, e critica, nello smembramento dell’oggetto del sapere, nonché nella parallela formalizzazione procedurale dei metodi, la riduzione del mondo storico, con l’intricata varietà dei suoi rapporti e delle sue situazioni, a indici di uniformità perfettamente calcolabili. Il “lavoro astratto”, quale principio di conversione quantitativa delle forme concrete di lavoro nella misura del lavoro in generale – prerequisito della costituzione della merce forza-lavoro e quindi della lotta di classe per il plus-lavoro –, è la scala fondamentale di questa calcolabilità che, quando Lukács scriveva, aveva la propria base di irradiazione nella fabbrica taylorista. La calcolabilità degli uomini, ridotti a grandezze del processo di produzione capitalistico, e dislocati nei suoi piani differenti e complementari, dalla produzione, alla circolazione e al consumo, è sia un’estensione che un’intensificazione del carattere di feticcio della merce, con il quale Marx aveva iniziato il suo studio del “capitale”, ed essa mostra – naturalmente nello smascheramento lukácciano del suo “arcano” – come anche nelle forme più sofisticate, più rigorose, più sofferte e perfino più originali della scienza borghese, le “cose” – l’impresa, lo Stato, la comunità, il diritto, la Costituzione ecc. intesi come complessi di funzioni – sostituiscano i rapporti, gli sviluppi e le dinamiche che articolano i livelli della totalità storica dell’essere sociale. Pertanto, per rimanere nell’esempio, dallo Stato, dal diritto o dall’impresa – considerati come insiemi di ruoli formali e di fini astratti e predeterminati -, viene rimossa la genesi storica, e con essa scompaiono tutte le lotte che l’accompagnano, le contraddizioni che vi esplodono, i molti bisogni reali e le violenze immani che vi emergono. Entro le ripartizioni e gli statuti metodologici delle scienze sociali della modernità borghese, diviene inoltre impossibile comprendere che gli istituti e i poteri che esse separano con accuratezza, agiscono gli uni dentro gli altri, come aspetti o momenti di una totalità. Ma questa totalità, il cui concetto è passato da Hegel al materialismo storico di Marx e di Engels, e che, negli anni in cui Lukács scriveva i saggi di Storia e coscienza di classe, incontrava originali applicazioni nel pensiero e nella praxis di Lenin, è l’aspetto più importante e quasi il crinale decisivo del “punto di vista del proletariato”.
Nelle avventurose peripezie di Storia e coscienza di classe, questo “punto di vista del proletariato” è spesso apparso, anche all’autore stesso, come uno scivolamento idealistico, a causa di una coscienza di classe proletaria intenta – in mezzo alle guerre civili, nel fermento dei consigli e di fronte al terrore controrivoluzionario – a districare i nodi e a scoprire le “reificazioni” del sapere filosofico e scientifico della società, dello Stato e del diritto, in Kant e in Weber, in Simmel e in Kelsen. Ma questo “punto di vista del proletariato” non va inteso come un documento, come un programma o come una strategia, promulgati da un partito o da un consiglio: una tale immagine sarebbe meno di una caricatura. La coscienza di classe, nel marxismo del giovane Lukács, è piuttosto la prospettiva sul mondo e sulla storia che si dischiude all’umanità coinvolta nella lotta di classe proletaria, è un “potenziale” di sapere che si realizza e si sviluppa in questa lotta. Solo in tal modo esso può scalzare, educandosi nei più aspri contrasti e uscendo dalle proprie contraddizioni, le fantasmagorie borghesi della reificazione. La parola reificazione (Verdinglichung), già usata da Marx, e resa di largo uso teorico da Lukács, indica infatti l’apice dello scontro tra il pensiero borghese e la coscienza di classe proletaria, poiché tale parola designa, molto efficacemente, il prolungamento del feticismo della merce nel pensiero filosofico e scientifico della borghesia, nel quale i rapporti sociali prendono l’aspetto di cose (si reificano). Infatti, il punto di vista del proletariato, che rompe la reificazione strappando i fatti al loro isolamento feticistico e riconoscendo le contraddizioni che li producono, sembra, in questa contrapposizione puramente filosofica, una smagliatura idealistica nel materialismo storico dell’opera, una sorta di conflitto fra autocoscienze, come quello di Hegel. Ma il fraintendimento sta proprio qui, poiché la base antropologica di questa lotta irriducibile è l’essere sociale lacerato del proletariato, un essere sociale scisso tra la negatività della condizione proletaria e la negazione umanistica proletaria della disumanizzazione capitalistica dell’uomo. Soltanto in questa negazione della negazione, impregnata della lotta fra l’umanesimo e la disumanità, e compiuta dal proletariato in quanto classe rivoluzionaria, “il punto di vista del proletariato” mostra la sua radice materiale e si libera da ogni sospetto di idealismo.
Un proletariato siffatto non è vincolabile a una composizione di classe storicamente determinata, ma richiede che questa composizione sia di volta in volta indagata e ricostruita, sebbene nel solco di una teoria che annoda in modo saldo e cogente la conoscenza critica della totalità storico-sociale e la classe rivoluzionaria. Non soltanto: il proletariato di Storia e coscienza di classe proietta le alleanze leniniste – i contadini, i popoli oppressi dal colonialismo, gli strati popolari più poveri – nell’orizzonte dialettico dell’umanizzazione rivoluzionaria dell’uomo disumanizzato dalle forme di vita e di lavoro capitalistiche. Pertanto, “il punto di vista del proletariato” del giovane Lukács, può divenire, senza subire stravolgimenti, sia “il punto di vista di classe”, inteso come traccia sempre riproponibile per ogni direzione teorica della praxis rivoluzionaria, sia la contro-violenza come presa di coscienza del colonizzato, nel mondo di Fanon e di Jackson o in alcune pagine di Sartre. Questi due mutamenti sono in realtà sdoppiamenti di un’unica forza storica, il proletariato, che, in Storia e coscienza di classe, assumeva – in una forma filosoficamente compiuta ed esemplare – il compito e l’identità del soggetto, al tempo stesso, della praxis e della storia, della conoscenza del mondo e del sapere di sé. Il proletariato, divenuto tale soggetto, riunisce in sé, approfondendone tutti gli aspetti, l’universalismo implicito nelle forme di coscienza di tutti gli oppressi dal dominio capitalistico, nel mutare storico dei loro combattimenti e delle loro contraddizioni. E poiché il dominio capitalistico, dalla seconda metà del XIX secolo, si è organizzato e sviluppato nelle strutture, nei rapporti e nelle funzioni dell’imperialismo, anche la classe rivoluzionaria, riconfigurandosi come soggetto antagonistico mondiale, si è dispersa e ritrovata nelle innumerevoli situazioni dell’oppressione e dello sfruttamento, sia nella metropoli imperialista che negli spazi neocoloniali. Allora, l’espressione “punto di vista di classe”, ricalcata sul lukácciano “punto di vista del proletariato”, può agevolmente passare in altri luoghi e far sì che essi si aprano alle domande della praxis rivoluzionaria comunista.
Tuttavia, il “punto di vista di classe” non può più, nel nostro tempo, avvalersi del partito leninista, nel quale educazione e organizzazione mediavano – nel più felice diniego di ogni intento demiurgico – il rapporto tra classe e avanguardia di classe. Ciò non toglie che “il punto di vista di classe” – che mette in moto, nei differenti contesti, sia l’indagine sulla composizione di classe della società sia la critica delle ideologie piccolo borghesi che avvolgono i gruppi sociali oppressi – torni costantemente a sollevare il bisogno del partito rivoluzionario. Questo bisogno può essere un punto di partenza per generarne le condizioni. Una di queste, che consegue con cogenza dal “punto di vista di classe”, è una specifica modalità di lotta: “l’attività pratico-critica”. E’ nata dalla penna di Marx, nella Prima Tesi su Feuerbach, e il giovane Lukács l’ha spesso rimessa in gioco. Oggi può utilmente prendere il posto della vecchia unità di teoria e prassi. Questa sostituzione porta sulla scena il metodo dialettico.
2. Il passaggio nella dialettica
Quanto la dialettica sia entrata nellevicende e nella temperie storica delle Rivoluzioni proletarie, nella loro preparazione, nel loro svolgimento, negli avanzamenti come nei compromessi, e perfino nelle sconfitte che ne hanno segnato i cammini tortuosi, è difficile, e quasi impossibile, dirlo. E tale impossibilità dipende dalla incessante reinvenzione della dialettica nei suoi usi molteplici, e al tempo stesso dall’attitudine di essa a sorpassare la teoria in direzione della pratica e la pratica in direzione della teoria, rendendole, la teoria e la pratica, intrinseche l’una all’altra. “Attività rivoluzionaria pratico-critica”, appunto. Del resto, secondo Marx, le Rivoluzioni proletarie del XIX secolo si distinguevano dalle Rivoluzioni borghesi del secolo precedente perché, a differenza di queste, non raggiungevano d’impeto e con clamore il loro obbiettivo, ma avanzavano in mezzo ad arresti, ritornando continuamente indietro per correggersi e per comprendere meglio la radicalità dei propri obbiettivi, attente alle circostanze in cui avrebbero finalmente gridato hic Rhodus hic salta. Questa immagine delle Rivoluzioni proletarie di allora – così sensibile alle ambivalenze, ai rovesciamenti e alle potenzialità realizzatrici delle contraddizioni – è limpidamente dialettica. Le rivoluzioni del XX secolo – proletarie, certo, ma spesso inseparabilmente proletarie e contadine o, altrettanto spesso, contadine e anticoloniali – non hanno smentito, ma hanno anzi allargato e approfondito l’orizzonte dialettico nel quale tali avvenimenti sono stati compiuti e interpretati, non di rado con legami più o meno mediati con la circolazione internazionale, e indubbiamente internazionalista, di alcuni insegnamenti di Lenin e Mao. Inoltre, non soltanto le Rivoluzioni socialiste e anticoloniali hanno parlato, pensato e agito attraverso forme specifiche e originali di dialettica, ma anche i ripiegamenti pessimistici e i dinieghi filosofici della praxis, propri di alcune costellazioni del marxismo occidentale – un esempio tipico è quello di Horkheimer e Adorno – , hanno ragionato dialetticamente – spesso con prodigioso acume – sulla loro rinuncia. Pertanto, il marxismo rivoluzionario e la dialettica sono avanzati insieme, e non nei dipartimenti universitari, bensì nel furore e nel desiderio – e certo anche nello scoramento – dei combattimenti degli oppressi. “Le avventure della dialettica” è il titolo di un libro, intelligente e generoso sebbene nettamente liquidatorio, su uno spaccato del marxismo novecentesco. Il libro è stato scritto da Merleau-Ponty, e forse proprio perché l’autore intendeva regolare dei conti, porta un titolo così avvincente.
Un’impresa molto proficua, a portata di mano per le organizzazioni marxiste militanti del nostro tempo, un’impresa capace di rendere sempre più fine, pronta ed efficace “l’attività pratico-critica”, potrebbe essere quella di addentrarsi nel repertorio variegato delle più importanti interpretazioni dialettiche delle congiunture storiche rivoluzionarie, nelle quali, come sappiamo, il metodo dialettico ha conosciuto – dai tempi di Marx – tante reinvenzioni e tanti sviluppi. La dialettica, infatti, se coltivata nei suoi insegnamenti contro-intuitivi, immette nel “punto di vista di classe” la capacità di trovare “un popolo”. Nel nostro tempo il problema che assilla le organizzazioni di lotta della sinistra marxista rivoluzionaria è proprio questo. Infatti, nel mondo contemporaneo, noi comunisti – e più in generale tutti i promotori e tutte le avanguardie dei movimenti anticapitalisti e antimperialisti che emergono in circostanze e in contesti molto diversi tra loro – siamo gettati in mezzo a fenomeni storici ambivalenti, a tensioni sociali che si affievoliscono nella loro contingenza priva di aperture storiche e politiche, a una composizione di classe della società in cui il proletariato non è più rintracciabile nella fabbrica o nel quartiere, a sofferenze sociali diffuse e sbuffanti ma tragicamente cieche sulla loro origine, a lotte sociali che non si comprendono l’una con l’altra, a un’impotenza avvilente di fronte alla necessità, ogni giorno più incalzante, di mostrare alle masse l’accumulazione capitalistica e il genocidio dei palestinesi attraverso le bollette del gas e della luce. Come ci si districa da grovigli e da equivocità così estremi e così imbarazzanti? Come si possono mettere a punto strategie e tattiche che possano rendere produttive per la lotta di classe del proletariato e del suo “blocco storico”, quelle contraddizioni che invece, nel loro decorso spontaneo, scompaginano questa lotta e disgregano le alleanze di classe degli strati popolari della società? Come far apparire, per esempio, quel lato interno dei “fenomeni sociali” che, restando nascosto, impedisce una presa di coscienza di massa dell’interdipendenza fra la quotidianità feticizzata dei lavoratori precari e la macchina economico-militare dell’imperialismo? E’ qui che la dialettica è chiamata ad assolvere il suo compito precipuo.
La dialettica dunque è ancorata nella praxis rivoluzionaria, anzi è un elemento interno dell’“attività rivoluzionaria pratico-critica” in quanto scioglie le univocità e le rigidità, trova i movimenti nelle fissità, scopre i varchi e le falle nella compattezza, conosce i ribaltamenti e riunisce, organizza e dirige le contraddizioni. Nella filosofia moderna questa dialettica – ben diversa da molte dialettiche dell’Antichità greca, del Medioevo cristiano e dalla dialettica trascendentale di Kant – è stata, dapprima, messa a punto ed elaborata finemente da Hegel, nel contesto del sistema più saldo dell’idealismo tedesco, poi è stata trasformata e sviluppata materialisticamente da Marx e da Engels. Questi, indicati con sommaria semplicità, sono stati gli inizi. Del seguito ci siamo occupati più accuratamente, soprattutto attraverso l’excursus su Storia e coscienza di classe, un’opera che ha costituito uno snodo cruciale dei tanti percorsi, a volte divergenti altre volte convergenti, della dialettica marxista. Ma quello che ci interessa qui, al fine di impadronirci degli elementi del metodo dialettico che nel nostro tempo possono costituire una leva per intendere e per muovere forze sociali, è soprattutto l’agire multiforme della dialettica nelle società scosse dagli scontri di classe; pertanto balzano per noi in primo piano soltanto alcuni ritorni critici e innovatori della dialettica, quelli inviluppati nelle Rivoluzioni o coinvolti nei loro effetti. Da queste concezioni e da queste pratiche della dialettica, si possono ricavare utili insegnamenti.
L’anello debole della catena imperialista è uno dei più meditati e stringenti avvertimenti pratici di Lenin. Pertanto, i suoi risvolti storici, le sue ramificate implicazioni nei luoghi cruciali della riproduzione sociale e della riproduzione ideologica dei rapporti sociali, e quindi il suo rivelarsi pienamente nel cumulo delle contraddizioni interne alla struttura di classe di un ordinamento politico, o, più precisamente, nel culmine di quella serie di contraddizioni, ne hanno fatto un esemplare campo di indagine per la dialettica. Althusser vi ha trovato il terreno appropriato per costruire la sua dialettica marxista, una dialettica completamente sradicata dalla decisiva e attentamente filtrata eredità hegeliana del pensiero di Marx. Tuttavia, lasciando da parte la netta e perentoria separazione tra la dialettica di Hegel e quella di Marx, le osservazioni di Althusser sull’anello debole di Lenin appaiono interessanti e feconde. Infatti, la debolezza dell’anello viene individuata dipanando il gomitolo delle contraddizioni che procedono le une dalle altre nel corso di una transizione storico-sociale sconquassante, quando, come nel tardivo e lacerante sviluppo capitalistico della Russia, le strutture economiche, le amministrazioni e le forme di vita collettive di tipo paternalistico-feudale vengono rese vacillanti dall’introduzione, dall’alto e dall’esterno, attraverso lo Stato e gli investimenti del capitale straniero, di nuove modalità di produzione. Le contraddizioni interne alla Russia divengono così la chiave per comprendere uno squilibrio esterno, per avvalersi di una contraddizione di remota provenienza, di una contraddizione che inceppa l’efficienza degli apparati imperialistici nella loro permanente vigilanza controrivoluzionaria. “Toutte cuirasse a son defaut”, scrive molto opportunamente Althusser, ricordando un proverbio francese.
Questa dialettica mira a trovare il bandolo della matassa in un fascio di contraddizioni, o, per dirla con maggior scientificità, ricerca la contraddizione che nel coacervo delle opposizioni interne ai rapporti sociali, alle situazioni e ai poteri di una società divisa in classi, costituisce, nel complesso variegato delle forze in lotta e delle dinamiche concorrenti, il motore determinante delle trasformazioni. Althusser ha chiamato “contraddizione surdeterminata” questa contraddizione che influenza in modo decisivo il processo sociale e che permette di comprendere la differente portata delle tendenze e dei conflitti che, in uno specifico contesto storico, scaturiscono da differenti settori della società. Althusser si appoggia, in questo caso, su Engels e sul suo concetto di “ultima istanza”, usato da Engels per dissipare alcuni ricorrenti malintesi sul conto del materialismo storico e per contestare, in particolare, le opinioni malevole e deformanti dei suoi detrattori circa un’immaginaria preminenza dell’economia nella spiegazione delle trasformazioni della società. Engels, in modo piuttosto scolastico, e lasciando da parte la questione filosofica del lavoro sociale, respinge quelle obiezioni, assegnando all’economia un’influenza determinante soltanto “in ultima istanza”. Althusser ricalca le orme di Engels, ma ne traspone il tema in una nuova teoria dialettica, in una teoria che si limita, tuttavia, a riunire e a giustapporre le contraddizioni, dischiudendole, nel loro contenuto e nella portata, attraverso una “contraddizione surdeterminata”, “determinante in ultima istanza”. La praxische ne deriva ridiviene dualistica, presupponendo una sfera teorica distinta, per quanto Althusser si sia sottratto al rischio di uno scivolamento contemplativo della teoria, e abbia insistito sul suo valore pratico, sulla “pratica teorica”.
Tuttavia, nonostante l’allontanamento dalle basi hegeliane della dialettica di Marx, sia stato pagato da Althusser con la perdita di figure dialettiche cruciali – come il “rovesciamento” e la “negazione” -, il suo inquadramento strutturalista delle contraddizioni, orientato sul loro coordinamento e sul loro padroneggiamento, può servirci come illuminante introduzione all’originalissima prospettiva di Mao. Infatti, per quanto Althusser abbia respinto facili analogie fra le due dialettiche, la rilevanza metodologica attribuita da entrambe ai percorsi e alle combinazioni delle contraddizioni, avvicina, seppur molto schematicamente, le due posizioni teoriche. Però, ed è necessario insistervi, mentre le contraddizioni indagate da Althusser tendono a sovrapporsi e ad accumularsi, quelle che attraggono l’acume dialettico e il bisogno pratico di Mao tendono a trasformarsi incessantemente – nella loro composizione e nei loro effetti -, al punto che la dialettica di Mao è, al fondo, una teoria del mutamento delle contraddizioni. Questo meditato e duttile sapere delle contraddizioni è, al tempo stesso, il mobile disegno delle alleanze del proletariato nel contesto delle guerre di liberazione anticoloniali. Da qui il carattere – per dirla con le parole di Marx e di Lukács – “pratico-critico” del pensiero di Mao.
Questo pensiero segue la trama multiforme delle contraddizioni, e concentra l’attenzione sulle loro conversioni, sulle loro correlazioni, sui loro rovesciamenti, sugli scambi di posto dei loro elementi costitutivi, “principali e secondari”, e sulla loro passeggera coabitazione nei differenti contesti storico sociali. In tali contesti, infatti, le contraddizioni si generano le une dalle altre e scompaiono in nuove e diverse contraddizioni, e, soprattutto, dispiegano tutti i loro caratteri peculiari, quei caratteri, gravidi di conseguenze, che, in base a luoghi e a circostanze, le distinguono in “principali” e “secondarie”, “antagonistiche” e “non antagonistiche”. La conoscenza e l’apprendimento di queste tipologie di movimento nei loro aspetti universali e comuni, e la capacità diriconoscerle e di analizzarle nella particolarità delle situazioni, sono un compito fondamentale della teoria comunista rivoluzionaria, nonché la sua insostituibile arma teorica. Se la lotta rivoluzionaria non fosse resa accorta, saggia e preveggente dalla dialettica, la sconfitta sarebbe inevitabile. Tutte le questioni eminentemente pratiche della lotta di classe, in quanto fattore decisivo della storia e della società, possono trovare nelle forme mutevoli delle contraddizioni un appropriato criterio di giudizio e di orientamento. Per esempio, nel quadro movimentato e drammatico della lotta dei comunisti cinesi contro il Kuomintang, contro i Giapponesi e contro le consorterie imperialiste occidentali, la contraddizione antagonistica tra il proletariato e l’imperialismo, o tra il proletariato e la borghesia burocratica cinese (il mandarinato), era diversa dalla contraddizione tra il proletariato e la borghesia nazionale, dapprima, o in alcune fasi, non antagonistica, poi, e in modo definitivo, antagonistica. La natura della contraddizione principale delinea il volto e indica il posto del nemico (o dei nemici) da combattere prioritariamente in una determinata congiuntura, e rende altresì riconoscibili gli alleati temporanei. La borghesia imperialistica è naturalmente un nemico permanente. Un genere di contraddizioni tutto speciale è poi il genere delle contraddizioni in seno al popolo, che richiedono un metodo di soluzione ben diverso dalle forme di ostilità verso i nemici. La critica e l’educazione sono, per Mao, la via che conduce alla soluzione di queste contraddizioni. “Unità-critica-unità” è la parola d’ordine – molto dialettica – per agire accortamente in questo campo.
E’ sorprendente la stretta parentela fra la dialettica di Mao e la dialettica che Brecht ha portato sulla scena, rimbalzandola su spettatori proletari chiamati a vedere “dialetticamente” dentro le estraniazioni dei personaggi, spesso destinati, a causa della loro cecità verso i meccanismi della società di classe, a una crudele “bastonatura”. Ma sono soprattutto le parabole del suo Me-ti, Libro delle svolte, scritto negli anni Trenta, più o meno contemporaneamente allo scritto di Mao sulla contraddizione, a dare alle somiglianze un’impronta riconoscibile. La dialettica vi diviene il Grande Metodo, e quindi il più prezioso bene intellettuale della saggezza rivoluzionaria degli oppressi, che, apprendendone l’uso, potranno stabilire e sciogliere alleanze, scoprire i processi al fondo delle cose, per sottrarsi all’inganno delle une e per ben adoperare gli altri, e soprattutto potranno imparare a porre le giuste domande. Probabilmente, Brecht ha letto il saggio di Mao molto tempo dopo la composizione del suo Libro delle svolte, ammiccante alla dialettica già nel titolo, e così spesso la applica ad avvenimenti e a situazioni dell’Europa e dell’Unione Sovietica, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre e dagli anni di Lenin. Così, a proposito dell’audace programma di Lenin sulla cuoca alla direzione dello Stato, un’immagine che nell’imminenza dell’insurrezione popolare, e nell’attesa tutt’altro che infondata di profondi rivolgimenti rivoluzionari in Europa, sembrava bruciare le tappe di una transizione al socialismo, rivelatasi poi molto dura, lunga e difficile, Brecht offre un commento di quell’idea, in cui la dialettica brechtiana e quella del capo rivoluzionario sembrano specchiarsi l’una nell’altra. Brecht osserva, infatti, che Lenin non intendeva scavalcare utopicamente la realtà, ma incoraggiare un doppio mutamento, quello della cuoca – con tutto quanto essa poteva rappresentare – e quello dello Stato. L’insegnamento da ricavare da un tale doppio mutamento risiede evidentemente nel doppio vantaggio di uno Stato impostato come cucina e di una cucina impostata come Stato. La dialettica qui è molto più di un grazioso aforisma. Ed è anche molto più di una comprensione di Lenin, al di là della lettera. E’ un indice etico del socialismo.
E così, in questa rassegna di dialettiche marxiste, siamo arrivati a Lenin. Il percorso non è stato soltanto a ritroso, ma anche circolare, poiché Lenin significa “il punto di vista di classe”. Perciò, Storia e coscienza di classe, con le linee epocali tracciate dal “punto di vista del proletariato” nella scienza e nell’etica, è uno degli sviluppi filosofici più originali delle idee di Lenin. La dialettica di Lenin è sempre congiunta con il punto di vista del proletariato, che, mediante il metodo dialettico, viene strappato alle angustie dell’economicismo sindacale e riversato nei compiti della propaganda e della conoscenza di tutti gli aspetti del dominio di classe. Per questo l’organizzazione diviene, per Lenin, l’impresa più essenziale, e per questo tale organizzazione deve essere, al tempo stesso, strumento di lotta e istituzione educativa. Il problema delle alleanze che emerge in questo contesto, in quanto praxis di una classe costruitasi come soggetto rivoluzionario attraverso l’organizzazione, è, con assoluta tipicità, una questione dialettica, poiché richiede sia la comprensione delle vicissitudini dei contadini, gettati, in seguito alla disgregazione dell’obscina, nel turbine della capitalistizzazione della grande proprietà terriera, sia un’esatta conoscenza degli intrecci fra la borghesia imperialista e la borghesia russa. L’alleanza con i contadini e lo scontro con i menscevichi e con altri socialisti di destra, fautori di un’immaginaria, astratta e opportunistica Rivoluzione borghese, è stata precorsa da questa critica dialettica della storia russa, compiuta, senza alcun equivoco, da un punto di vista di classe. Ma il capolavoro dialettico di Lenin è senz’altro la prosecuzione critica di prospettive e di atteggiamenti dei narodniki – i populisti russi -, dei quali il rivoluzionario bolscevico prima attacca duramente l’anacronistica difesa dell’obscina, per poi riprendere da essi l’idea di un ampio movimento rivoluzionario popolare basato sull’alleanza fra il proletariato urbano e i contadini. Lukács, nella sua breve e importante monografia su Lenin, sottolinea la svolta dialettica: al popolo fantasticato dai narodniki subentra il popolo come “alleanza rivoluzionaria di tutti gli oppressi”.
3. Aspetti del disordine contemporaneo
Se cerchiamo il punto di vista di classe nelle nostre società occidentali capitalistiche, questo sforzo per dare ordine ad una situazione di scontro sociale assai disgregata, e fatta di risposte centripete a un comando capitalistico che impone adattamenti sempre più dolorosi, rende ancor più riconoscibile il disordine generale. Il lavoro nel capitalismo neoliberale e post-fordista, sempre più informale, interstiziale e negoziabile aziendalisticamente, insieme alla distruzione del salario sociale, erogato, in altri tempi, in servizi e assistenza, hanno completamente isolato il proletariato industriale, hanno collocato ai margini della produzione la classe operaia storica, sia quella dell’operaio professionale sia quella dell’operaio massa. Le sue lotte non si concatenano le une con le altre, non divengono un fronte. Solo quando i lavoratori, con la loro tenacia o con la loro disperazione, o aiutati da circostanze favorevoli di tipo tecnico, economico o ambientale, riescono a uscire dall’anonimato, il loro caso, bucando le deformazioni giornalistiche, riesce a rendersi visibile. Oltre la loro linea, un nuovo proletariato spunta fuori, quello che le nuove forme di lavoro individualizzano nella solitudine di una povertà vestita da managerialismo, cosicché, qui, il proletario viene derubato perfino del nome sociale – del nome della sua classe – ed estraniato come “imprenditore di se stesso”. Sia che disonori se stesso onorando questo nome, sia che recuperi la sua umanità fallendo come imprenditore di se stesso, egli rimane un atomo sociale. Ancora più in basso, ai confini del sottoproletariato, troviamo braccianti agricoli immigrati, manovalanza dei cantieri e riders, e fra di essi nascono lotte e capi sindacali temporanei. I lavoratori della logistica si trovano nel mezzo fra questi due gruppi e sono i lavoratori più combattivi, nonostante la condizione dell’imprenditore di se stesso sia per loro un coltello alla gola. In un’analoga condizione versano molti autotrasportatori, ma le loro agitazioni si fondono con demagogie fascistizzanti e i loro tempi di carico e scarico, resi frenetici dal mercato, li rendono pericolosi per gli operai che protestano nei piazzali.
Negli strati popolari, dal piccolo commercio al pubblico impiego, dagli artigiani ai professionisti con scarsa clientela, la pauperizzazione avanza sempre più e lascia segni vistosi nei consumi e negli stili di vita. Inoltre, la liquidazione spietata delle forniture dello Stato sociale e del sistema sanitario nazionale prepara anche a questi gruppi sociali una condizione di instabilità e di timore. Ma in questi ambienti le lotte sociali sono diventate quasi impossibili, e non ci sono neppure proteste. La disoccupazione, poi, è la base della semioccupazione, e così entrambe, nella loro mutua implicazione, si allargano incessantemente, smistate al ribasso, dalle agenzie del padrone, verso la più fungibile mobilità. Qui le lotte sono spontanee: nascono attraverso comitati improvvisati. La stessa cosa avviene per la resistenza agli sfratti, nelle aree urbane prese di mira dagli immobiliaristi. I “senza tetto”, soprattutto africani, sono tantissimi, nelle piccole e nelle grandi città, e la notte si rendono invisibili disperdendosi in fortunosi rifugi suburbani; ma nessuno riesce a organizzarli come forza sociale antagonistica. La sinistra anticapitalistica e i sindacati di base sono impotenti di fronte alla loro condizione. Comunque, l’emarginazione metropolitana di giovani immigrati, anch’essi disseminati nel sistema del lavoro interstiziale e confinati nelle periferie ghetto, sta crescendo in tutta l’Europa. Infatti, i banlieusards, con la loro rabbia e con le loro occasionali sollevazioni, sono un detonatore sociale di cui le organizzazioni rivoluzionarie marxiste dovrebbero tenere conto. Per ora soltanto i centri sociali sopravvissuti agli sgomberi e agli smantellamenti compiuti, manu militari, dalla polizia, riescono a collegarsi, anche se in modo spontaneistico, con queste fasce ribelli della società.
I movimenti contro la NATO, contro le grandi opere, contro i continui giri di vite alla legislazione di polizia che procede insieme alle nuove forme di accumulazione capitalistica, e, più recentemente, le mobilitazioni di massa a fianco della Resistenza palestinese, non hanno una definita anagrafe di classe, ma provengono da quegli strati popolari che oggi rotolano verso la povertà. Tuttavia, questi movimenti, nonostante la favorevole opportunità derivante dalla loro stessa composizione sociale, non sanno rendere tangibile, nelle pratiche di lotta quotidiane, la combinazione tra il rimodellamento neoliberale della società capitalistica, quale risposta storica dell’accumulazione alla propria crisi, e la catena di guerre che l’Occidente imperialista ha ripreso a scatenare. Ciò impone controffensive meno settoriali, capaci, per esempio, di rendere fisicamente percepibile l’imperialismo nelle bollette del gas e della luce, o nel prezzo del pane, o di far sentire il genocidio dei Palestinesi nella legge di bilancio. La difficoltà a compiere questa impresa così lontana dallo “spirito del tempo” attuale, gli ostacoli economici e organizzativi che essa incontra, il potenziamento tecnologico degli “apparati ideologici di Stato”, attraverso i quali i rapporti sociali capitalistici si riproducono sotto forma di idee e di valori, tutto ciò è all’origine dello scivolamento di una parte degli strati popolari delle nostre società europee in una frustrazione inibente e in un risentimento cieco in cui possono sguazzare tutte le demagogie xenofobe.
Ecco quindi un bel mazzo di contraddizioni! Ecco, anche, un disordine dei tempi inseparabile dall’alternarsi e dal compenetrarsi di crisi nei processi di riproduzione allargata dell’economia capitalistica, e inseparabile anche dalle sconfitte proletarie in Occidente, da un loro cedimento organizzativo, politico e soprattutto culturale di fronte a un “divenir società” – società capitalistica – sempre più accelerato e prepotente del modo di produzione capitalistico. Questo disordine, osservato da un “punto di vista di classe” perde il suo fenomenico potere incantatore, il suo carattere di fantasmagoria dell’imprigionamento sociale o di inevitabile entropia storica. Infatti, il punto di vista di classe, come abbiamo mostrato attraverso Lukács, non è un dato empirico ma lo scavalcamento “teorico” del feticismo dei dati, la facoltà di vedere il mondo storico attraverso la lente critica della coscienza di classe e della lotta di classe. In tal modo, il disordine contemporaneo, in apparenza chiuso in se stesso come un segno assoluto e perentorio della storia, si apre allo sguardo, interrogabile nei suoi passaggi, nei suoi rovesciamenti e nelle sue opposizioni nascoste, ossia mediate. In breve, con il “punto di vista di classe” vengono allo scoperto le contraddizioni, emerge il metodo dialettico.
Ma torniamo al disordine contemporaneo, per ricercarlo, a questo punto, fuori dall’Occidente, fuori dalla metropoli imperialista. Qui, ci troviamo spesso di fronte a una confusa sovrapposizione di conflitti di classe e di scelte antimperialistiche compiute in nome dell’indipendenza nazionale, o, per meglio dire, compiute per la difesa delle risorse e della popolazione di un territorio in nome di un’ideologia patriottica. Infatti, il progetto di una liberazione dal dominio coloniale avanzante, in fasi successive, verso il socialismo, o direttamente perseguita in un orizzonte socialista, non è, nel nostro tempo, una forma di lotta antimperialista frequentemente riscontrabile. Inoltre, anche gli Stati socialisti che sono scaturiti da rivoluzioni di grande rilevanza internazionale, spesso assurte al rango di simboli e di avanguardie del “Terzo Mondo”, hanno conosciuto difficoltà insormontabili e un conseguente arresto del processo rivoluzionario – a Cuba e in Vietnam – oppure, come è avvenuto in Cina, hanno subito i contrattacchi di una borghesia burocratica orientata verso forme ibride di capitalismo. Il socialismo arabo è stato minato e rovesciato dalle borghesie nazionali, a volte in combutta, come in Egitto, con l’imperialismo. I movimenti rivoluzionari guevaristi dell’America latina sono un retaggio storico ancora attivo e certamente ricco di insegnamenti per i popoli di quel continente; ma oggi il tenace e ammirevole antagonista degli Stati uniti in Sudamerica è il bolivarismo dei successori venezuelani di Hugo Chávez, e così sono i profondi cambiamenti sociali ed economici rappresentati dalla bandiera di un ideale nazionale rimesso in piedi a provocare la reazione dell’Occidente imperialista. Anche in Africa, dove nel Sahel sta rimettendosi in moto un fronte antimperialista che raccoglie l’eredità di Cabral e di Sankara, il blocco sociale delle alleanze interne tende perlopiù, come era avvenuto con i due precursori assassinati, a perseguire realistici obbiettivi di democrazia sociale fuori dalle orbite neocoloniali dell’Occidente. La prospettiva è inevitabilmente indefinita e, indubbiamente, affronta il rischio, per il momento ineludibile, di accordi con le borghesie nazionali, clienti e faccendiere collaudate del vecchio colonialismo, e sempre pronte a colpire, per servire il neocolonialismo, le forze sociali, i partiti e gli uomini che intendono interrompere i flussi di ricchezze verso la metropoli.
Anche qui appaiono tanti e diversi piani e momenti della lotta di emancipazione anticoloniale, tante alleanze temporanee, che, come insegnava Mao, dovranno disfarsi in inimicizie quando la contraddizione vecchia sarà tramontata nella nuova. E, al centro di tutto il quadro turbolento della polarizzazione imperialista tra centro metropolitano e periferie coloniali – la contraddizione che sta al capo della catena -, oggi si riacutizza all’estremo la “guerra dei cent’anni” del blocco occidentale, prima a guida britannica poi a guida statunitense, e del Sionismo contro il popolo palestinese. Il genocidio in corso in Palestina è un episodio, l’episodio culminante, di un progetto coloniale occidentale che precede perfino l’irruzione del Sionismo, e che da Napoleone ai governatori inglesi dell’Egitto e della Palestina – da lord Cromer al visconte Samuel -, dall’assalto commerciale e militare delle organizzazioni sioniste alle terre palestinesi, alle guerre di sterminio dello Stato d’Israele, ha cercato di aprire, ed è riuscito ad aprire, alla borghesia imperialista uno dei più prosperi corridoi economici e una delle più vantaggiose teste di ponte militari dell’intero sistema di dominio dell’Occidente. Ma in Palestina l’imperialismo ha urtato contro un ostacolo tenace e irriducibile: una Resistenza popolare che in alcuni periodi della sua storia è riuscita a canalizzare su di sé tutte le forze antimperialiste della regione, sia quelle di alcuni Stati arabi sia quelle delle masse arabe più povere, lasciando intravedere un riassetto rivoluzionario dei rapporti di classe in un’area traboccante di tensioni, dalla Giordania al Libano. Poi, in anni più recenti, la pax americana ha trasformato i moderati e gli opportunisti della vecchia O.L.P. in poliziotti di Israele, proprio mentre nella Resistenza si indebolivano le avanguardie laiche e socialiste, e nel popolo palestinese, abbandonato dall’O.L.P., avanzava l’ideologia religiosa di Hamas.
Ciononostante, e senza soccombere alle tecnologie israeliane del terrore, la Resistenza palestinese ha contrattaccato e oggi non viene sradicata neppure dal genocidio; e questo mentre la Palestina diviene, per molti popoli delle aree emarginate del pianeta, una linea divisoria di classe, un crinale internazionalistico da ricostruire. Ma proprio qui si inciampa nella contraddizione più rocciosa: la Resistenza palestinese è attirata dalle circostanze in un campo di alleanze che coinvolgono – quali nemici “oggettivi” dell’imperialismo – Stati reazionari e autocrazie imperiali ma non imperialiste, come la Cina e la Russia, e queste alleanze, nei rapporti di classe interni alla Resistenza, potrebbero essere di ostacolo a una Rivoluzione autenticamente anticoloniale in Palestina. Quindi, tirando le conclusioni, non ci resta che costatare i molti capovolgimenti, gli incompresi ritorni del passato e le frequenti scissioni di unità, seguite dalla ricomposizione di nuove unità, che hanno influenzato la Resistenza palestinese e che possono condizionarne gli sbocchi.
Ancora un apparente disordine, ancora vistose incoerenze, ancora confusione. Tutto ciò all’inizio può smarrire, ma poi, osservando meglio lo svolgimento ineguale di processi e di avvenimenti, e ragionandovi sopra secondo “il punto di vista di classe” vengono fuori le contraddizioni. Il metodo dialettico allora è già al lavoro. Ma bisogna ricorrere, seppur fugacemente, a esempi e qui gli esempi sono situazioni. Una situazione è questa: l’espulsione di ampi settori di classe operaia da un ciclo produttivo sempre più sfilacciato, scomposto e devoluto al mercato globale, non può essere arrestata da un’iniziativa operaia orientata su piani aziendali di riconversione retoricamente detti solidali ed ecologici, non soltanto perché essi non potranno mai essere tali, ma soprattutto perché i vincoli tecnici e contabili dell’amministrazione, dettati inflessibilmente dal comando capitalistico, si sostituiranno, con automatica necessità, a una lotta a oltranza. Eppure, anche questo tipo di resistenza, per quanto improntata a un’ideologia da aristocrazia operaia, può divenire, se condotta nel segno dell’autonomia e dell’insubordinazione, una forma di lotta di classe, in quanto, rendendo pubblico un retroscena industriale, potrebbe mostrare, anche con il proprio fallimento, la forza crudele delle dinamiche dell’accumulazione capitalistica.
Ma proseguiamo: nei nostri tempi, la proletarizzazione delle classi medio-basse genera in esse una forma di radicalismo dei diritti costituzionali con forti tinte patriottiche, una combinazione che non ha precedenti storici significativi, sebbene vi sia contenuta una tipica oscillazione tra rivoluzione e reazione propria di tali gruppi sociali. E inoltre, questi strati della società, da mezzo secolo culturalmente estranei alle lotte antimperialiste, e spesso invischiati in pregiudizi ideologici nei confronti dei movimenti anticoloniali, oggi si mostrano non di rado ostili alle guerre della NATO, e a volte partecipano a comitati che chiedono l’uscita dell’Italia da questi sistemi militari. Naturalmente, la pauperizzazione delle classi medio-basse, è – ed è stata, almeno in tante drammatiche congiunture storiche del Novecento – anche un vivaio di disposizioni securitarie destinate ad alimentare fantasmi razzisti e xenofobi, ma ciò non fa venir meno il groviglio di promettenti contraddizioni che emergono dalle mobilitazioni pubbliche di queste fasce sociali. E’ superfluo ricordare quanto sia importante, per fare di queste forze un alleato sicuro e stabile, o semplicemente per strapparle ai brancolamenti irrazionali che possono farne una truppa ausiliaria delle classi dominanti, riconoscere, prevedere e soppesare le motivazioni, le tradizioni e gli interessi che possono far inclinare da una parte o dall’altra gli strati medio-bassi della società, che ignorano la lotta di classe e proprio per questo ne divengono uno strumento. La praxis che sa farlo è già dialettica.
Lo scontro mondiale fra l’imperialismo e i popoli che agitano gli anelli della catena imperialista è ancor più esemplificativo dell’efficacia critica del metodo dialettico immanente al punto di vista del proletariato. Infatti, negli ambienti coloniali, prima, e in quelli neocoloniali, poi, le avanguardie rivoluzionarie dei popoli in lotta, ossia i partiti o i movimenti che puntano a cambiare radicalmente i rapporti economici e politici con la metropoli occidentale, devono stringere accordi o formare alleanze più o meno stabili con le borghesie compradoras, devono coinvolgere nei boicottaggi e negli scioperi gruppi sociali abbarbicati alle imprese e ai traffici delle compagnie straniere, devono dirigere un blocco di classi ampio e precario, un blocco che le oscillazioni del debito manovrate dalle istituzioni monetarie internazionali possono scompaginare in ogni momento, e infine, e insieme a tutto ciò, devono scambiare favori fuori dai confini del paese, per ottenere appoggi, aiuti o utili neutralità dagli Stati più potenti oggi in rotta di collisione con l’Occidente imperialista. In queste peripezie e nel continuo riacutizzarsi di questi conflitti, la questione nazionale può divenire un punto d’attrito, a volte cruciale, tra il fronte anticoloniale e gli Stati imperialisti, come già Lenin aveva sottolineato. L’emergere del socialismo dall’indipendenza nazionale, o, all’opposto, il prevalere di un nuovo assoggettamento di tipo neocoloniale, dipendono da una lotta di classe lunga e sfaccettata, nella quale la controrivoluzione, interna e internazionale, rimette in piedi tradizioni religiose e scatena rivalità etniche. Così le rivoluzioni anticoloniali avanzano, per dirla ancora con Marx, nel “concime delle contraddizioni”.
Pertanto, procedere in mezzo a tante insidie facendone scaturire delle opportunità, e tenendo ferma la barra sul proprio progetto, richiede una precisa cognizione dei giri delle contraddizioni e della concatenazione delle “mediazioni”. Il cammino è tortuoso, accidentato, ed è inevitabile che il viandante segni il passo, oppure arretri per avanzare più facilmente (reculer pour mieux sauter). Le Rivoluzioni proletarie del paragone di Marx, facevano proprio questo. Il moto in questione è dunque dialettico ed è dialettica la sua comprensione adeguata, quella comprensione che è – per noi e nel nostro contesto storico – parte integrante di ogni praxis, o meglio, di ogni “attività pratico-critica”. Il disordine contemporaneo trova pertanto il suo limite storico e filosofico nel “punto di vista di classe”, che è il luogo concettualmente deputato della dialettica, ovvero del sapere che è pratica e della pratica che è sapere.
4. Il partito
L’“attività rivoluzionaria pratico-critica” presuppone l’organizzazione, anzi, l’organizzazione è il suo primo problema. L’organizzazione è infatti costitutiva di ogni attività rivoluzionaria. La domanda Che fare?, avvertiva Lukács, è una domanda organizzativa, poiché richiede una messa a punto e una combinazione – naturalmente dialettiche – di mezzi, luoghi, tattiche e strategie. “Il punto di vista del proletariato” e la coscienza di classe proletaria, così importanti per Lenin e per Lukács, sono condizioni storico-sociali inseparabili dall’organizzazione, ed è per mezzo di questa che tali condizioni maturano e si formano, districandosi dai particolarismi economicistici e dalle angustie ideologiche. Infatti, se il punto di vista del proletariato non è piattamente riconducibile alla media quantitativa delle opinioni di una classe, ma esprime al contrario l’orizzonte intellettuale e filosofico che si profila nella praxis di quella classe, in quanto essa scrolla le “reificazioni” e le estraneazioni di tutta la società, allora il punto di vista del proletariato è anche il risultato, sempre incompiuto, di un’autoeducazione di cui l’organizzazione è il mediatore instancabile. La classe rivoluzionaria acquista coscienza di sé nell’organizzazione, così come l’organizzazione si fonda sulla classe rivoluzionaria, e soltanto su di essa. Questa circolarità dialettica tra classe e organizzazione è un tratto peculiare sia di Lenin che del Lukács di Storia e coscienza di classe. Nella loro visione di questo problema ritorna, in tutta la sua pregnanza, l’idea marxiana dell’educatore che deve essere, a sua volta, educato, con la quale Marx, nella Terza tesi su Feuerbach, coglieva il risvolto pedagogico del rapporto fra gli uomini e il loro ambiente sociale.
Tutti gli aspetti del problema dell’organizzazione che hanno accompagnato e travagliato la Prima Internazionale, i blanquisti, i populisti russi e l’ala marxista rivoluzionaria della Seconda Internazionale, dopo la Rivoluzione d’Ottobre sono confluiti nella teoria e nella prassi dei partiti comunisti. Poi, con la fine del periodo dei fermenti rivoluzionari in Europa e con l’avvio della lunga guerra civile in Cina, seguita alla liquidazione dei comunisti per mano di Chiang Kai-shek, i partiti comunisti, dove non si misero alla testa dei movimenti anticoloniali, andarono incontro a involuzioni moderate, che nel secondo dopoguerra, in Occidente, in America Latina e nel mondo arabo, resero inutile e obsoleto ogni interesse per l’organizzazione. Infatti, dove non c’è più Rivoluzione, l’organizzazione di tipo leninista scompare dalla scena. Tutt’altre esigenze si sono invece annunciate con le Rivoluzioni anticoloniali e con le vicende rivoluzionarie degli anni Sessanta e Settanta che ebbero il loro epicentro in Occidente. In Europa, soprattutto, i tentativi furono frequenti e tenaci, e sebbene non siano mai riusciti a unificare sommovimenti sociali assai estesi e ramificati, ebbero tuttavia la capacità di concatenarli, di moltiplicarli e di alimentarli. Però mancarono loro, nei tempi successivi, la direzione politica, la strutturazione di un blocco sociale e una sedimentazione culturale di idee capace di preservare e di sviluppare comportamenti e linguaggi. Perciò furono vacanti alcuni compiti tipici del partito rivoluzionario. Perlomeno di un partito rivoluzionario marxista nell’Occidente tardo-capitalista.
In quel frangente, il tracollo delle forze rivoluzionarie dipese da una loro erosione interna, da una loro dispersione come effetto di una crescente impotenza, e, insieme a tutto ciò, da un loro assorbimento ideologico nei circuiti istituzionali dell’associazionismo, del sindacalismo delle trattative e del solidarismo sociale. Si trattò di un Termidoro politico e culturale, svoltosi nel breve Autunno di un residuale Stato-piano, già minato dall’avanzante Stato-impresa. Oggi questa cornice culturale si è completamente frantumata e quei fenomeni di passaggio sono divenuti un fattore riproduttivo del riassetto neoliberale dell’accumulazione capitalistica. Quel che rimane di quella metamorfosi sociale non ha più alcun rapporto con quel “concime delle contraddizioni” che abbiamo cercato di localizzare e di riconoscere in alcuni suoi tratti, e soprattutto nel suo motore planetario: il sempre più cogente rapporto tra le difficoltà dell’imperialismo nell’assicurasi la mano libera sul sistema delle sue maquiladoras neocoloniali e il livellamento sociale verso la povertà delle classi popolari all’interno della metropoli occidentale. E’ qui che la vacanza del partito rivoluzionario, non colmata negli anni Sessanta e Settanta, si ripresenta acuta e incalzante, e, ripresentandosi, assume la doppia forma di una richiesta e di una indicazione: far scaturire, dal “concime delle contraddizioni”, le lotte e le alleanze, le prese di coscienza e le volontà, le autonomie e le confluenze, che in esse giacciono inespresse e inattive.
Un partito marxista rivoluzionario assegna alla centralizzazione un compito fondamentale, e, nel nostro tempo, proprio questa esigenza urta contro le abitudini, le pratiche e il pensiero politico che l’adattamento alle nuove condizioni storiche ha diffuso e radicato nei militanti dei sindacati di base, dei movimenti antimperialisti, dei gruppi ecologisti e dei tanti comitati di resistenza urbana e rurale. Tuttavia, questa esigenza è ineludibile, e se si tiene conto che la denuncia della disorganizzazione metodica del proletariato come tendenza e funzione peculiari della democrazia borghese, è stata un insegnamento fondamentale di Lenin, insistentemente riformulato da Lukács, la necessità della centralizzazione diviene per noi ancor più pressante, poiché nella nostra epoca – assai lontana non soltanto nel tempo, ma anche nel tipo di situazione, dall’“attualità della rivoluzione” dei primi decenni del Novecento – la “guerra di movimento” di allora deve lasciare il posto a una “guerra di posizione”. Questa, nelle intenzioni di Gramsci, nelle sue stringenti analogie tra la praxis e l’arte militare, conteneva in sé, come proprie variazioni, la guerra di manovra e la guerra sotterranea, e costituiva, insieme a esse, una preparazione più o meno lunga per la guerra di movimento. Gramsci disponeva le complementari guerre di posizione e di manovra nella “società civile”, per assediare e per espugnare le sue “casematte” e le sue “trincee”, e chiamava “società civile” – usando l’espressione in un senso molto personale, lontanissimo da Ferguson e un po’ meno lontano da Hegel – l’ambiente istituzionale, economico e culturale di una società borghese distinta dal suo Stato. Ebbene, la guerra di posizione o di manovra è un combattimento nelle articolazioni economiche, negli “apparati ideologici” e negli ambienti quotidiani di vita della società capitalistica, poiché la società civile di Gramsci, rinominata con il linguaggio marxista degli anni Sessanta, altro non è che la società capitalistica. Occorre inoltre osservare, in questa trasposizione militare della lotta di classe proletaria, che la guerra di movimento, per quanto possa tornare pienamente al centro della strategia soltanto in un processo rivoluzionario di massa, non deve essere completamente abbandonata nella guerra di manovra, poiché occupazioni di spazi e strutture, riappropriazioni di beni comuni, scioperi a oltranza e dimostrazioni collettive sono momenti di guerra di movimento poggianti su una guerra di posizione o di manovra. Quanto insostituibile sia un’organizzazione centralizzata per condurre, compenetrare e convertire mutuamente le diverse forme di azione politica ben rappresentate dai paragoni militari di Gramsci, è assolutamente evidente.
Ci sembra che le attuali circostanze non consentano di andare oltre la definizione di un problema politico, e di fornirne una provvisoria fondazione teorica. Infatti, tracciare l’immagine di un partito marxista rivoluzionario, o semplicemente prevederne le linee di sviluppo in base a forze già costituite e attive nel nostro contesto storico è, a nostro avviso, impossibile. Il partito di Lenin, Lukács non si stancava di ripeterlo, era una solida incarnazione dello “spirito del tempo” in quanto adempiva il compito del momento: l’attualità della Rivoluzione. Il nostro compito, oggi, è diverso, ma non completamente diverso, poiché, nella messa a punto del problema del partito rivoluzionario, le vicende di quel tempo sono una traccia da rendere visibile. Il “punto di vista di classe” e il “metodo dialettico” sono un “tempo ritrovato” di cui ogni nuovo cammino potrà beneficiare.