di Baldassarre Caporali
“Se mi accusano di aver rubato le torri di Notre-Dame, non mi resta che abbandonare la Francia”. Ecco una piccola frase spiritosa e crudele, lontana da noi nel luogo e nel tempo, una battuta che malgrado la distanza ci ricade addosso irresistibile. E’ stata messa in circolazione da Anatole France ed è molto probabile che con essa lo scrittore volesse esorcizzare, in un solo affondo, il giornalismo antisemita e nazionalista e la burocrazia statale e militare della Terza Repubblica, in una situazione in cui l’affare Dreyfus faceva balenare in anticipo un segno prepotente della propaganda totalitaria dei fascismi europei: l’inverosimiglianza delle accuse, l’enormità iperbolica delle infamie scaricate sulle vittime. Ma insieme a tutto ciò, quale rovescio salvifico della marchiatura delle vittime, apparve, di lì a poco, l’apoteosi del capo, nella quale l’irrealtà delle parole ripetute dagli altoparlanti proseguiva il suo corso, scambiando l’orrore in idillio, ritoccando le violenze con i tratti della vignetta edificante. Brecht ha azzeccato l’analogia inventando, per il Führer tedesco, l’immagine dell’imbianchino.
Poi venne il cinema, che a Oriente risvegliava le masse mentre a Occidente le cullava nelle merci – cosmetici e automobili, villini e case popolari, sport e famiglie piccolo-borghesi in vacanza, mitragliatrici e aereoplani -; successivamente vennero i programmi radiofonici, la pubblicità, le canzonette, i divi. I divi! Allora gli statisti e i magnati delle oligarchie capitalistiche impararono dai divi. Impararono, certo, ma non a imperversare sui mercati, a sconquassare i continenti e ad agitare le borse, poiché queste scorrerie, finanziarie e militari, erano la loro professione & vocazione fin dai tempi di Lutero; impararono piuttosto a innalzare la temperatura totalitaria delle società storiche facendo girare i personaggi fittizi dell’amico e del nemico sui fantasmi delle grandi paure – economiche o epidemiche, demografiche o missilistiche -, immancabilmente scatenate dai cataclismi che accompagnano la corsa al profitto. Una corsa al profitto che i personaggi fittizi dell’amico e del nemico dovevano nascondere completamente, sostituendola con un’apocalittica sfida ad un nemico di volta in volta raffigurato nei mutevoli volti di un guastafeste del sorridente benessere promesso dagli imbianchini, un benessere spumeggiante nei cartelloni e nelle televisioni.
E così i popoli sono stati sommersi e spaventati dai rossi, dai selvaggi delle giungle coloniali – Mao Mao kenioti o Vietcong – dagli studenti barricadieri, dall’operaio-massa degli scioperi a gatto selvaggio, dai banlieusards, dagli immigrati clandestini, dalle popolazioni dei ghetti. L’imbianchino ha cambiato fisionomia e cerimoniale: non più cupo e abbaiante ma pubblicitario e ammiccante, e i bombardieri hanno smesso di sfilare nelle parate, ma hanno continuato a divorare i bilanci degli Stati, combinati, attraverso impenetrabili alchimie finanziarie, con i fondi di investimento, e quindi anche con i risparmi e le pensioni di larghe masse sociali. Tuttavia, l’inverosimiglianza delle figure del pericolo e dell’inquietudine ha sempre trovato le circostanze e i varchi in cui prosperare, e purtroppo quella “santa caccia” delle polizie di tutta l’Europa allo “spettro del comunismo” che, nel 1848 Marx ed Engels potevano ancora deridere e denunciare, molto tempo dopo sarebbe apparsa, sotto altri nomi, come un’opera meritoria di leggi, governi e funzionari. Le parole di Anatole France possono quindi toccarci, e anzi dovrebbero ammonirci, nel nostro tempo, soprattutto nel nostro tempo, in un XXI secolo che, come è stato scritto, sembra proseguire un “lungo ventesimo secolo”, cominciato molto prima della sua cronologia. Occorre dunque ripetere quelle parole: “Se mi accusano di aver rubato le torri di Notre-Dame non mi resta che abbandonare la Francia”.
Chi può abbandonare il proprio paese dispone dei mezzi per farlo, siano essi buoni redditi, un conto bancario o ambienti favoreggiatori, e uno scrittore come Anatole France, al quale tutte queste cose non mancavano, poteva sorvolare facilmente sulle difficoltà del trasloco. Più difficili, tortuosi, avventurosi e spesso drammatici sono stati gli espatri degli antifascisti europei tra le due guerre mondiali, ma, in quel caso, la rete clandestina delle organizzazioni politiche preparava i piani, e soprattutto selezionava gli approdi, in uno spazio storico che ancora concedeva rifugi. Oggi invece la sparizione della multidimensionalità del mondo nello spazio amorfo e senza orizzonte del mercato globale sembra rendere irrimediabilmente antiquati quei rifugi. Infatti, il capitale, per allentare le briglie al terrore, che è sempre stato una sua calcolata ricetta politica, non ha più bisogno – naturalmente in Occidente – di fondere lo Stato con bande malavitose o con corporazioni dorate, industriali o giudiziarie, militari o finanziarie, non ha più bisogno di fare dello Stato un trombettiere che suoni l’adunata e si erga come un gigante accigliato o benevolo, somigliante ai mostri biblici Leviathan e Behemoth, nelle cui immagini perturbanti alcuni scrittori moderni hanno smascherato il sottofondo mitico – e quindi irrazionale – delle istituzioni borghesi.
Nel nostro tempo, basta al capitale farsi completamente Stato ed incorporare lo Stato nelle proprie funzioni, ed il passaggio storico è compiuto: il terrore può circolare nella società insieme ai licenziamenti e al carovita, ai lavoratori certificati e a quelli non certificati, ai piani economici che affogano le cure sanitarie e le protezioni sociali nell’informatizzazione dei sistemi d’arma e di sorveglianza amministrativa, può mescolarsi alla contraffazione dell’insicurezza sociale, ormai vicina alla disperazione di massa, in un delirio securitario alimentato dallo spauracchio dei nuovi untori; colpevoli, questi, di prendere sul serio la carta di Norimberga: una debole barriera umanitaria opposta ad una biologia politica che, muovendo dalle segregazioni e dagli esperimenti sui proletari e gli emarginati e dagli stermini epidemiologici di popolazioni colonizzate, era sfociata, passando attraverso le politiche antimigratorie degli Stati Uniti, nei Lager nazisti. E allora, di fronte al riconfigurarsi totalitario del comando del capitale, è inevitabile chiedersi se ha ancora un senso il paradosso, assolutamente realistico, di Anatole France. Vediamo.
I fascismi vengono nutriti nel grembo del capitale, ricordava Brecht, ma il capitale non è una persona, non è il signor capitale – Monsieur le Capital ! -, bensì un rapporto sociale che trasforma in denaro le cose, i lavoratori, le macchine e la natura, è un “alambicco”, ha scritto Marx, un grande alambicco che estrae “cristalli di denaro” da un mondo ridotto a merce. E la merce che da quasi un secolo rimette in moto l’accumulazione capitalistica, che la risolleva dalle sue stagnazioni, è la vita umana, amministrata, classificata, spiata e protocollata nei corpi medicalizzati degli individui, attraverso indici demografici che modulano economia e popolazioni. Foucault, risalendo la genealogia di questo dispositivo di potere, vecchio di secoli, lo ha chiamato biopolitica.
Il capitalismo odierno è biopolitico. Invade il vasto territorio della salute/malattia e lo quadretta, vi distribuisce serie, vi istituisce casi, bandisce pratiche, stabilisce ed esclude strumenti di rilevazione, e così fa ruotare una grande macchina sociale su un corpo umano devoluto alla disciplina del lavoro estrattivo e al meccanismo cieco dello scambio. Per questo i trattamenti sanitari coatti, che oppongono un potere senza vincoli ad un cittadino medicalizzato, assoggettato a controlli capillari e capziosi, e completamente abbandonato alla revocabilità illimitata di ogni status giuridico che ne possa proteggere le più elementari condizioni collettive di esistenza, si accompagnano alla soppressione di ogni residuo spazio di cura, di prevenzione e di socializzazione terapeutica, attraverso una completa assimilazione del paziente ad un potenziale frodatore. Chi sta in basso è sempre sospettabile, e quindi dovrà essere osservato, filtrato e selezionato: ecco pertanto gli sbarramenti, le autorizzazioni, le attestazioni di immunità e le elargizioni amministrative di buona salute. Tutto avviene nei canali digitali, naturalmente, poiché le tecnologie della vita e l’informatizzazione dei rapporti sociali spingono il potere del capitale sul lavoro umano a livelli vertiginosi. Immettiamo poi, ricordandoci di Adorno e di Debord, questa possente ristrutturazione di mezzi e di funzioni di dominio nella suggestionante autorità di un mondo ridotto a spettacolo, ed avremo una realtà trasformata in favola, già annunciata, forse, da quei filosofi che avevano scrutato il tempo storico dal lontano XIX secolo.
La battuta di Anatole France spunta fuori tra il XIX e il XX secolo ed è inquietata dal presentimento dei fascismi. In essa viene fiutato il terrore totalitario ed è per questo che essa trafigge la memoria del Novecento, riversando in noi i cupi raggi di una violenza di Stato che ricaccia le vittime fuori dalla realtà, le rigetta nell’inesistenza storica, come insisteva a dire Hannah Arendt. Tuttavia, né Anatole France né Hannah Arendt hanno riconosciuto il terrore capitalistico nel terrore prefascista o fascista. Oggi è il capitalismo biopolitico che ricalca quelle tracce. Allora dobbiamo rimeditare le parole dello scrittore francese: “Se mi accusano di aver rubato le torri di Notre-Dame non mi resta che abbandonare la Francia”. Però correggiamo: abbandoniamo la Francia dei genocidi in Algeria, in Madagascar e in Indocina, indistinguibile dalla Francia che delira il furto delle torri di Notre-Dame; ma rimaniamo nella Francia della Comune, per ridestarla e per renderla più forte. In fondo la Francia resta un “paese allegorico”. Forse, in Europa, il più allegorico.