di Rolando D’Alessandro
La lettura del libro “Spingendo la notte più in là”, di Mario Calabresi (500.000 copie vendute nel 2007 ed altre decine di migliaia fino ad oggi, letto nelle scuole) mette allo scoperto i meccanismi con cui nella nostra società si crea l’egemonia narrativa.
Una vera e propria riscrittura della storia che espunge tutti gli elementi dissonanti di un passato che ci è restituito ed è insegnato alle nuove generazioni con su il timbro della Verità:
“gli anni 70 furono gli anni di piombo, funestati da un terrorismo nero – che aveva qualche complicità in apparati deviati dello stato – e da quello rosso. Si trattava di un delirio in cui frange di fanatici agitavano il fantasma dell’illegalità di massa. Una nebbia di paura in cui la gente d’ordine (non più ordine “borghese” ma “ordine” tout court) vagava smarrita cercando il riparo delle istituzioni.
“Se spariscono le istituzioni, cosa rimane?” si chiedevano allora e rispondevano “il vuoto”. Non uno spazio libero, come diceva e voleva una parte considerevole – pensante e desiderante – della gente che lavorava, studiava o sopravviveva allora in Italia, ma il “vuoto”, il “nulla”, il “caos” da cui ci poteva liberare solo lo Stato: rifugio, arbitro e padre.
In questi decenni si sono sforzati molto per dissipare quella nebbia in cui avevano fatto sparire le ragioni, la creatività, lo spirito di lotta e rivolta, i valori, le esperienze di autorganizzazione, di solidarietà. E per esorcizzare quella sorta di paura “democratizzata”, che non colpiva più solo chi non arrivava a fine mese, viveva in baracche o buttava la vita ad una catena di montaggio, o scendeva in piazza perché non ne poteva più, ma anche chi non osava andare in giro colla Ferrarina o la pelliccia o perpetrare abusi e prepotenze nascondendosi dietro una divisa e una pistola.
Ci sono riusciti, e hanno fatto sparire la nostra memoria. Criminalizzazione, carcere, censura, manipolazione, silenzi hanno prima eliminato tutte le ragioni, sepolte sotto etichette/lapidi come appunto “anni di piombo” e “terrorismo”.
E poi hanno compattato il tutto imponendo una lettura sul piano etico (o piuttosto emotivo-sentimentale) del loro ricordo.
Non di conflitto fra interessi e valori opposti si era dunque trattato ma di semplice e scellerata violenza omicida che provocava vittime innocenti: quelle direttamente colpite dal “terrorismo” e le loro famiglie.
È una lettura che per essere efficace deve cancellare le altre, di vittime. E così l’anarchico caduto dalla finestra è caduto e basta, pace all’anima sua e chi si chiede cosa ci facesse, interrogato in questura per tre giorni senza mangiare e senza dormire, un ferroviere colpevole chiaramente solo d’essere anarchico, si macchia di dietrologia.
E così Francesco Berardi, diventa un anonimo brigatista colpevole dell’omicidio di un sindacalista che si opponeva ai terroristi e non un operaio denunciato da un sindacato che organizzava la delazione in fabbriche e quartieri, morto impiccato in carcere per aver diffuso dei volantini.
Per carità le informazioni d’allora erano contaminate, manipolate, erano propaganda di guerra! Bassa e vile come tutte le propagande di guerra.
Resta il fatto che le morti di Pinelli, Berardi, Annamaria, Luca, Franco, Mara e di tanti e tanti altri, operai, braccianti, studenti di quegli anni e di tutti quelli precedenti, sono fatte svanire.
E nella nuova verità che riunifica l’Italia con dei vincitori e un pugno di vinti, irragionevoli e senza causa, si dileguano, con i nomi e le ragioni degli sconfitti uccisi, anche la P2, Gladio, le stragi di Stato, derubricato il tutto a “misteri d’Italia” che non fanno ombra alla narrazione unica del nostro passato recente.
Dove campeggia il dolore delle vittime di una furia omicida, difensori dello stato o integerrimi imprenditori, giornalisti, medici, che erano padri di famiglia, mariti, figli. Lo erano sempre stati. Sui giornali, alla radio, sulle televisioni.
Perché i sostenitori attuali della Verità di quegli anni non fanno altro in fondo che riprendere, ribadire, santificare la versione già allora diffusa e imposta da tutti gli altoparlanti del potere e riassumibile nella frase di Sima Qian, (popolarizzata da noi via Mao Tse Tung): “Tutti gli uomini muoiono ma la morte di alcuni ha più peso del monte Tai e la morte di altri è più leggera di una piuma”. Le piume, com’e ovvio, erano e sono i nostri morti.
Ma come hanno fatto ad imporre con tanta efficacia questa memoria che ci esclude?
Oggi in molti si scandalizzano quando i neofascisti al governo parlano dei riservisti tirolesi di via Rasella come di vittime innocenti di una cinica azione che innescò la spirale di ulteriori violenze (l’eccidio delle fosse Ardeatine).
Dimenticano però che questa stessa logica è stata applicata per anni da molti settori di sinistra alle azioni delle Brigate Rosse e delle altre organizzazioni armate: poliziotti, giudici, delatori, padroni, erano tutti vittime innocenti di un terrorismo sanguinario e irragionevole. Che era anche la causa delle svolte autoritarie, delle legislazioni d’eccezione, dei rigurgiti fascisti.
Dimenticava spesso, questa “sinistra”, che le svolte autoritarie, i morti in piazza e le leggi antiribelli c’erano già, anzi, non avevano mai smesso di esserci negli oltre vent’anni che erano trascorsi dalla fine della guerra e dalla caduta del fascismo.
Ricordo gli argomenti – ripresi pari pari dalla stampa di regime – che definivano totalitari, fascisti, criminali quelli che imbracciavano le armi o sparavano o bruciavano macchine o si scontravano con poliziotti e neosquadristi.
Ma anche quelli – un po’ più a sinistra – che prendevano le distanze dalle “frange avventuriste”, dai “compagni che sbagliavano” a colpi di slogan: “Né con lo stato né con le BR”, “È il proletariato che decide se e quando imbracciare le armi”. “La P38 è un simbolo fallico”. Il tutto a cavallo di un’onda lunga di insinuazioni, dietrologia, criminalizzazione (“sono pagati dai servizi segreti d’Israele, dalla CIA”) scatenata da un PCI che, allontanatosi dalla scia dello stalinismo si era però portato dietro il bagaglio di esperienze – accumulate nei gulag, nelle ceka e nei ministeri di propaganda -, di contrasto a ogni dissidenza.
O quegli altri ancora che, anni dopo, avrebbero attribuito in parte il trionfo del Berlusconismo alla parola d’ordine movimentista dell’“illegalità di massa”, interpretata come un culto all’illegalità.
Oltre alle considerazioni e valutazioni di tipo tattico o strategico, ma soprattutto moralistico, c’era alla base di quel diffuso atteggiamento di condanna il convincimento di “non essere in guerra”.
Guerra legittima era quella partigiana contro il fascismo, mica quella di un manipolo di radicali fanatici che vivevano in una democrazia, limitata e difettosa sì, ma costituzionale e nella quale senza violenza si potevano pur fare un sacco di cose, anzi proprio tutto.
Guarda caso proprio in quel periodo iniziava l’abbandono in massa, da parte del variegato mondo di rivoluzionari, riformisti e ribelli, di uno degli aspetti che la lotta armata europea all’epoca invece manteneva come centrale: l’internazionalismo. Una parte fondamentale nell’analisi era la visione dello scontro di classe, che individuava nei nostri paesi della vecchia Europa il cuore dell’oppressione capitalista sul pianeta intero.
In quell’approccio risultava difficile negare l’esistenza di una guerra, con il Vietnam, il Cile e le mille aggressioni imperialiste di cui eravamo telespettatori, come ricordavano le decine e decine di slogan urlati in piazza (Alfatah Alfatah vincera’, Anche in Cile, come qui, il nemico è la DC, Andreotti, le bombe / sono anche tue / è come / se fossi / su un B52, Buttiamo a mare le basi americane, Cile* libero, Cile* rosso! [* altro Paese], Contro Frei, Contro Fanfani, operai cileni, operai italiani, DC cilena, DC italiana / la stessa mano americana, Fuori l’Italia dalla NATO; fuori la NATO dall’Italia, Giap Giap Ho Chi Minh, Grecia libera, IRA*, Feddayn, Tupamaros… Vietcong [*MIR, MIR], Vietnam è rosso, l’Italia lo sarà, Il potere nasce dalla canna del fucile / questo c’insegna la resistenza in Cile, Il proletariato non ha nazione: internazionalismo, rivoluzione! Italiani, Sloveni: uniti nella lotta) … eppure è proprio quello che facemmo in tanti – paradossalmente proprio nel periodo in cui fisicamente il capitale sbriciolava le frontiere e nella sua scia noi cominciavamo a viaggiare per il mondo – neutralizzando il concetto, sempre meno citato il concetto stesso, e poi via via svilito nelle pratiche del “turismo rivoluzionario” (da Lisbona a Chiapas tutti ricordano la quantità d’italiani ansiosi di “vivere” rivoluzioni vere!), dell’onegeismo caritativo fino, scendendo la china, alla cooperazione prezzolata, una nicchia di occupazione e sbocco professionale per le anime occidentali più delicate e all’attuale turismo tout court in paesi schiacciati da dittature (Turchia, Marocco) dove però si mangia bene e si spende poco.
Insomma, tolto di mezzo – ignorandolo – il fastidioso fantasma del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) noi, la maggioranza dei movimenti e le masse del PCI in piena virata verso il porto sicuro delle istituzioni dello stato, decidemmo che non c’era guerra. E, mentre negavamo ai gruppi armati il diritto di arrogarsi i ruoli di avanguardie o di partito armato, dimenticammo di porci una domanda importante: chi è che decide lo stato di guerra?
Qualche anno fa Warren Edward Buffett, uno che secondo la rivista Forbes ha una fortuna di circa 508 miliardi di dollari, disse: “È ovvio che c’è una guerra di classe e che la stiamo vincendo noi”.
Il fatto che noi la negassimo allora e che abbiamo continuato a negarla durante questo mezzo secolo, non ha modificato di un apice la realtà.
Che è una realtà di guerra totale in cui la diserzione non è servita nemmeno a fermare la violenza, le morti:
Nell’ultimo decennio sono stati assassinati 1.700 leader di movimenti ambientalisti. Gente, per capirsi, che si opponeva pacificamente alla distruzione dei loro habitat (foreste, laghi, fiumi, mari, montagne) per il rifornimento di materie prime alla macchina capitalista globale o – anche – per assicurare la continuità del nostro “modello di vita”
Sfruttamento bestiale, estinzione in massa di specie, dittature feroci, pandemie, cambiamento climatico, migrazioni di massa, carestie, siccità, lotta per le risorse, concentrazione della ricchezza, dilagare di vecchi e nuovi fascismi, integralismi. Guerre.
Tutto per alimentare la crescita esponenziale del mercato, dei consumi e dei profitti.
A 50 anni dalla sconfitta delle guerriglie europee, delle rinunce alla lotta di classe, del cambiamento di paradigma che porta ad abbracciare una visione presuntamente più femminile del conflitto, con forme di protesta (non di lotta) sempre più individualiste, difensive, rigidamente non violente, i risultati sono questi.
Si è soliti pensare e dire che il trionfo della logica demente e avida del mercato è conseguenza delle enormi forze messe in campo dai suoi difensori, forze contro le quali qualsiasi resistenza è stata inutile, soprattutto dopo la caduta del muro.
Però da vecchio marxista uno si chiede se qualche responsabilità non possano avercela avuta anche le scelte strategiche fatte e imposte da quelle che erano le forti sinistre europee e mondiali.
La totale assenza di autocritica – l’unico elemento comune a tutti i settori della sinistra che fu: da quella riformista e ormai transitata compattamente nelle logiche e dinamiche del sistema, ai partiti extraparlamentari, agli anarchici ed agli ex movimentisti oggi dispersi in una via lattea di collettivi e associazioni – è di per sé un dato che fa pensare.
In attesa dell’auspicabile riflessione (e rivendicazione) di questo nostro passato di lotta è secondo me di vitale importanza rigettare frontalmente, con tutti i mezzi a nostra disposizione, la lettura che ci viene imposta sugli anni 70.
Il tentativo – sicuramente mal fatto, sicuramente destinato comunque al fallimento ma certamente molto più adeguato alla brutalità dell’attacco contro popoli, culture e la vita stessa – di alzare l’intensità della risposta non può più essere interpretato, come vuole il pensiero dominante, alla luce di espressioni come anni di piombo e terrorismo rosso. Ma non per orgoglio o un attaccamento sentimentale a vecchie esperienze di lotta. Ma proprio per recuperare l’uso della ragione. Per smettere di confondere pace e riconciliazione con resa senza condizioni e conversione al credo dei vincitori.
C’è stata una sconfitta, i compagni che sbagliarono fummo anche noi, che le armi non le volemmo prendere, prendiamone atto e ricostruiamo un percorso facendo per prima cosa una lettura autonoma, antagonista – come si diceva allora – del nostro passato, non introiettando le ragioni e i valori di chi sostiene (con la generosità bonaria di un maometto o di un gengis khan nei confronti dei popoli che si sottomettevano senza combattere) un ordine delle cose che non ha nulla di generoso, né di bonario ed ancor meno di naturale.