Categorie
Disfattismo Rivoluzionario

Guardarsi intorno

di Rolando D’Alessandro

Nell’autunno di cinque anni fa in Catalogna si verificavano una serie di eventi  che per un breve periodo attirarono l’attenzione dei media europei. 

Un movimento che gran parte della sinistra scelse d’ignorare o anatemizzare mediante l’assegnazione dell’etichetta di “nazionalista”, risparmiandosi così il disturbo di analizzare attentamente quel conflitto, banalizzato da una lettura binaria, semplicista, di quelle che piacciono tanto a giornalisti e burocrati.

Pochi, pochissimi, si sono da allora presi la briga di scendere dall’alto delle proprie torri ed osservare che cosa succedeva realmente in quel piccolo territorio europeo. 

A cominciare dai “perché”: nell’esigenza di autodeterminazione confluivano infatti molteplici e diverse inquietudini, insofferenze e aspirazioni. Dal malessere indotto dalla “crisi” economica del 2008 (che aveva dato luogo anche al movimento degli indignati, assorbito ben presto nelle dinamiche del parlamentarismo) portatrice d’ insicurezza e precarietà per fasce molto ampie e crescenti di popolazione, alla volontà di opporre ad una cultura di potere autoritaria un modo di far politica diverso, più orizzontale e partecipativo; dal ripudio dello stato spagnolo visto in prospettiva storica come un apparato di oppressione nazionale e/o di classe, all’antifranchismo di massa; dalla rivendicazione di essere considerati soggetti attivi di una repubblica e non più sudditi passivi di una monarchia (costituzionale e voluta da Franco), alla preoccupazione per la decadenza della propria lingua e cultura (il catalano ha perso un 10% dei parlanti negli ultimi dieci anni), elementi di quella diversità necessaria alla vita e che ovunque si sta riducendo; dalla memoria delle generazioni che avevano subito dittature e repressione alla speranza di quelle nuove di poter costruire un qualcosa di diverso; dalla rabbia infine per le mille umiliazioni politiche, economiche, linguistiche inflitte storicamente dal dominio di un nazionalismo spagnolo arrogante e spesso violento, alla volontà di affermare la propria dignità collettiva. Ma non solo: nell’intenso e continuo dibattere e confrontarsi che ha segnato il decennio del movimento indipendentista, sono fiorite proposte per una ridefinizione dell’Unione Europea (non più degli stati e del capitale ma, a seconda, delle Regioni, dei municipi o dei popoli), e di realtà come lo Stato stesso e le sue istituzioni (esercito, apparato giudiziario, polizia ecc.). 

Tutto questo magma propositivo sarebbe dovuto sfociare infine, qualora una maggioranza di abitanti della Catalogna lo avesse voluto esprimendosi in un referendum, in un PROCESSO COSTITUENTE, cioè nella stesura collettiva e partecipata della carta magna della nuova repubblica.

“Scusate se è poco”, avrebbe detto mia madre…

Ha fatto invece fortuna un’espressione rassicurante, conferma di pregiudizi e luoghi comuni: siamo davanti a una “guerra di bandiere”.

E così oltre a perdere di vista il “perché” del fenomeno, gran parte di quelli che furono i settori rivoluzionari (ma anche solo onestamente riformisti)  della società europea, hanno perso una bellissima opportunità di riflettere un pochino sul “chi”, sulla composizione di classe e, di rimpallo, sul “soggetto” di un grande fenomeno di agitazione sociale.

Nel movimento catalano per “il diritto di decidere” c’era tutta la varietà della società in cui si inseriva e che lo aveva prodotto: insegnanti, agricoltori, impiegati, pompieri, conducenti di autobus, lavoratori del porto, della salute, artigiani, partite IVA, studenti, bibliotecari, disoccupati, informatici, precari, giovani, vecchi… 

Mancavano all’appello la totalità del grande capitale (tutte le grandi imprese, le organizzazioni padronali, le banche organizzarono una clamorosa serrata spostando le loro sedi fuori dalla Catalogna prima del referendum, oltre a finanziare campagne e partiti unionisti) e una gran parte delle classi meno abbienti.

L’interpretazione egemonica (a sinistra e a destra) di questo ultimo dato è che le classi più svantaggiate siano favorevoli al mantenimento dell’integrità istituzionale dello stato spagnolo. Benché perfino alcuni docenti universitari abbiano propagato la stramba idea per  cui gli astenuti, i voti in bianco e le preferenze per partiti animalisti vadano contati come comunque favorevoli al mantenimento dello statu quo, in realtà la cosa è ben più complessa. 

La classe operaia di fabbrica, è vero, non si mobilitò  il 3 ottobre 2017, quando un paio di sindacati minoritari (uno anarchico) dichiararono uno sciopero generale di protesta contro la brutalità della polizia di due giorni prima. Quel giorno le fabbriche continuarono a produrre in un paese paralizzato da masse di manifestanti disseminate sul territorio. Così come hanno continuato a produrre, negli ultimi decenni, mentre tutt’intorno la gente in massa si mobilitava contro le guerre, occupava le piazze, assediava i vertici delle grandi organizzazioni che controllano l’economia mondiale, si opponeva agli sfratti, protestava e scioperava contro il cambiamento climatico, protestava e scioperava per l’abolizione del patriarcato, si solidarizzava con i migranti morti alle frontiere o in mare. 

Un dato di fatto che dovrebbe suggerirci una revisione delle nostre certezze sul ruolo che le diverse classi svolgono oggi nei processi di trasformazione sociale, riflettendo appunto e per esempio sulla perdita di peso specifico – soggettivo e obiettivo – dei lavoratori dell’industria nelle lotte di opposizione al e di emancipazione dal capitalismo. E magari di smettere di utilizzare l’ormai fumoso concetto di proletariato, ridimensionato in “gente che soffre” (o addirittura “bisognosa”, nel lessico della nuova sinistra) oggetto, non più soggetto, di una altrettanto indeterminata “politica dei bisogni”, come alibi per nuove avventure riformiste o, peggio, come benzina per i motori del rossobrunismo.

Un movimento di classe media, di piccola borghesia, quello indipendentista? Chiamiamolo pure così, ricordando a ruota che ormai da anni la sinistra, con le sue battaglie sui diritti ed il suo allontanamento da qualsiasi pretesa di costituirsi come alternativa radicale al sistema, si alimenta quasi esclusivamente, a livello elettorale e di militanza, proprio di questa classe media, impoverita e non più garantita. 

Insomma, se vogliamo capire qualcosa della realtà, ricorrere a categorie di classe, maldigerite e forse valide 50 anni fa, per cancellare con una vigorosa mano di disprezzo tutto quello che non rientri negli schemi tradizionali della sinistra post-comunista è forse una delle cose più sciocche che si possano fare.

Perché, oltre a perdere di vista le poste in gioco e gli attori delle agitazioni in atto nel mondo, in questo modo ci faremo sfuggire anche i “come”.

Per esempio l’annosa questione dell’organizzazione. Nel nostro caso molto articolata: due partiti di centrodestra e centrosinistra (omologabili agli standard europei) più uno apertamente anticapitalista ed assembleare (CUP, 8,2% alle elezioni del 2015), fra tutti il 52% dei voti alle ultime elezioni; due grandi associazioni indipendentiste (ANC 40.000 aderenti e Omnium Cultural, 130.000 soci). Con sullo sfondo migliaia e migliaia di associazioni, cooperative, collettivi, comitati, gruppi, circoli, club, cori, enti, federazioni. 

Non tutta la costellazione associativa della Catalogna è impregnata di spirito indipendentista, ovvio, però configura una società che si organizza e si autogestisce in una gran varietà di aspetti della vita, dando luogo a una sorta di substrato fertile in cui attecchiscono fenomeni di autogestione e fioriscono i conflitti sociali.

Tutte le grandi mobilitazioni degli ultimi decenni (e ce ne sono state molte) infatti sono state alimentate, strutturate e sostenute da questo tessuto. Il 1º ottobre del 2017 in questo nacquero così i CDR, oltre 300 assemblee locali incaricate della difesa del referendum prima e della repubblica votata dopo. Nuclei autonomi (ognuno sovrano e coordinato con gli altri non attraverso rappresentanti ma delegati/staffette di entrambi i sessi) subito presi di mira dalla repressione di stato, con ricorso all’artiglieria pesante delle leggi antiterroriste (in questa democrazia – che ha fatto da battistrada a tutte le involuzioni autoritarie del resto d’Europa – per ricorrere alle leggi speciali ed alle sospensioni di diritti non c’è mai stato bisogno di violenza, basta l’intenzione di sovvertire l’ordine costituito).

Certo, la storia della società catalana è singolare, sviluppatasi di spalle o contro lo stato che l’amministrava, sentito estraneo quando non apertamente ostile (“Barcellona va bombardata ogni 50 anni” sentenziava il generale Espartero nel 1842. Nel 1937/39 ci avrebbe pensato l’aviazione legionaria italiana…), e spesso sostituito da iniziative “private” nei campi dell’istruzione, della sanità, dell’economia (cooperative, casse di risparmio), della cultura, dell’urbanismo. Diffidenza e ostilità che si sono tradotte in una sotterranea capacità di organizzarsi autonomamente e di generare quella cultura assembleare che permea ancor oggi la vita politica e associativa. Non è un caso che l’unica rivoluzione libertaria della storia europea abbia avuto luogo qui. Ma tutte le società, proprio perché tali, hanno “in nuce” questo potenziale, pur con forme diverse.

Che fare? Cose

“I catalani fanno cose”, diceva l’allora presidente del governo spagnolo, M. Rajoy, in uno spot pubblicitario che cercava d’ingraziarsi, con scarsissimo successo, la società catalana in piena effervescenza. 

Quando forme rizomatiche di organizzazione si attivano, la potenza che si sprigiona è incredibile: il primo ottobre migliaia di GC e poliziotti, i servizi segreti non riuscirono a intercettare le urne, che arrivarono puntualmente grazie a una rete clandestina di attivisti, né a chiudere la gran maggioranza dei seggi elettorali (scuole, ambulatori ma anche locali pubblici o privati), presidiati da associazioni di genitori, di studenti, di abitanti del quartiere nonostante la violenza di cariche che lasciarono oltre 1000 feriti. Gli attacchi informatici, che provocarono la caduta del sistema di conteggio dei voti, vennero rintuzzati da una sofisticata risposta da parte di centinaia di persone munite di telefonini e portatili. Distaccamenti della Guardia Civil furono bloccati in vie di montagna. Blocchi stradali con trattori e macchinari pesanti impedirono l’accesso dei convogli di poliziotti a diverse località. In altre le urne vennero nascoste e sottratte ai sequestri. In altre ancora gli scrutini vennero fatti dietro l’altare di una chiesa. La parola d’ordine era “vogliamo votare” in risposta all’arrogante “questo referendum non s’ha da fare e non si farà” del presidente del governo spagnolo e per tutta la giornata decine di migliaia di persone si mobilitarono. Moltissime erano accorse dopo aver visto le immagini delle violente cariche nei primi centri al mattino, spiazzando i comandi della polizia che avevano contato sull’effetto deterrente di quelle stesse immagini. “Abbiam votato” fu il grido di vittoria della notte del primo ottobre. 

Quel giorno si aprì un periodo di massima agitazione che sarebbe durato fino al 19 ottobre 2019. Lo Stato si scoprì impotente a contenere azioni di massa che gli sottraevano il controllo di territori, di vie di comunicazione, d’infrastrutture strategiche. Significative le testimonianze di centinaia di poliziotti che affermavano di aver avuto più paura di fronte agli “sguardi di odio” di queste masse disarmate e di ogni età che nei paesi baschi, quando l’ETA sparava e metteva bombe. 

Il fatto è che questa volta la strategia della non violenza veniva applicata nel senso più genuino: facendo capire al nemico che si trattava di una precisa scelta etica, meditata e condivisa, non di una rinuncia dettata dalla paura e dalla debolezza. E infatti a mo’ di suggello di due anni di mobilitazioni di massa incessanti, migliaia di giovani si scontrarono con la polizia a Barcellona e in molte altre città catalane, riuscendo a tener testa per ore e giorni a una repressione molto dura (numerosi i feriti gravi: gli antisommossa spagnoli spararono più pallottole di gomma – arma proibita in Catalogna – che in qualsiasi altra manifestazione svoltasi dalla morte di Franco ad oggi).

Dietro quel variegato attivismo non c’era una regia unica, ma un dibattito e confronto a molteplici livelli che sfociava in azioni a getto continuo su tutto il territorio. Un’esperienza che aveva successo veniva ripetuta, amplificata fino a diventare campagna. Un esempio chiaro di definizione collettiva degli obiettivi fu il blocco dell’aeroporto di Barcellona. Da mesi nelle riunioni, sui social o nelle conversazioni fra amici si parlava della necessità di azioni forti di disobbedienza come appunto il blocco del secondo aeroporto dello stato spagnolo. Quando infine il tribunale supremo (sorta di Corte di Cassazione) pubblicò il verdetto di condanna dei cosiddetti leader indipendentisti (dai 10 ai 12 anni ai membri del governo catalano ed ai presidenti delle due principali associazioni) e la gente scese in piazza, bastò che circolasse la parola d’ordine “tutti all’aeroporto” perché un fiume di gente si avviasse, in macchina, a piedi, in bicicletta, in metropolitana o in treno: era un obiettivo la cui scelta era sentita come collettiva.

Il caso catalano, dove una società organizzata è stata capace d’infliggere ripetute sconfitte a uno stato, dimostra a mio avviso che oggi (come sempre, del resto) il compito dei settori antagonisti consiste proprio in un’osservazione attenta delle dinamiche che attraversano le nostre società, cercando di individuare “le buone pratiche” e di contribuire alla tessitura di una ragnatela in grado di collegare realtà diverse, a volte diversissime, ma opposte al processo distruttivo e totalizzante in atto. Con la definizione graduale e diffusa di obiettivi e strategie che non possono  essere altro che proposte in divenire, adattate ai soggetti che le promuovono, ai cambiamenti di scenario, alle reazioni del nemico.

Un nemico che esiste, malgrado il termine sia scomparso dal vocabolario della sinistra perbenista, e che è quello di sempre: non certo purtroppo il consolante 1 per cento anonimo e si direbbe incorporeo di cui parlano alcuni, ma la classe di chi decide, di chi possiede gli strumenti di produzione (oggi da noi più che altro di distribuzione) e di repressione, il controllo delle fonti energetiche, alimentari, delle risorse, con tutto il suo vasto schieramento di alleati e servi, istituzionali e non.

Una grande opportunità per tutti quelli – critici, non conformisti, rivoluzionari – che sono costretti a muoversi in spazi sempre più angusti e che nel rimescolio della rimessa in causa dell’ordine costituito vedono schiudersi spazi impensabili altrimenti. La stessa che si è presentata con le lotte dei gilets jaunes o le reazioni alla militarizzazione della società nel periodo pandemico.

Certo, il movimento indipendentista catalano, come la guerra al franchismo nel 36, è attraversato da conflitti, a volte inconciliabili, che non potranno mai essere superati con richiami alla purezza o a purghe spietate ma che dovranno essere riconosciuti e gestiti come manifestazioni della vita stessa.

La distribuzione dei gruppi mobili non fu ortodossa. Non potevamo mescolare o combinare tribù diverse, a causa delle loro differenze: né era possibile impiegare una tribù nel territorio di un’altra. In compenso mirammo alla massima dispersione di forze. Aggiungemmo l’ubiquità alla rapidità usando un distretto di lunedì, un altro di martedì, un terzo di mercoledì, e questo rafforzò le nostre doti naturali di mobilità…. In realtà il nostro equilibrio era affidato al disordine massimo. (I sette pilastri della saggezza, cap. LIX)

In questo momento storico in cui sono in gioco letteralmente la sopravvivenza nostra e della natura stessa è urgente rivedere con umiltà e senza pregiudizi ruoli e strategie negli spazi organizzativi e di dibattito di quella che fu la sinistra.

… l’esercito guerrigliero non è avanguardia di classe o annuncio di un avvento di là da venire, bensì agente politico diretto, simbolo di una relazione diversa tra gli umani. Coincide con i prerequisiti del contesto che intende creare.
La guerriglia nomadica è l’opposto di un esercito, l’universo di segni che veicola è inversamente proporzionale alla sua forza militare. Essa combatte in vista del convincimento, non della vittoria; per la diversità, non per l’identità; per trasformare prima di tutto se stessa nello spazio rinnovato dal vento di cui è vettore, non per plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza. Il vento non si conserva, semplicemente continua a spirare, con intensità diversa, erodendo e muovendo le forme solide e allo stesso tempo venendone deviato.

La natura del movimento-guerriglia è dunque reticolare e vaporosa, nella misura in cui la rete della comunicazione può giungere a coincidere con quella dell’intero divenire sociale, con le forze vive che si muovono sul piano del mondo e dei mondi possibili. La resistenza contingente del nemico viene indebolita, aggirata, dalla costruzione di nuove piste, nuove mappe dello spazio “deserto” da popolare, sulle quali ci si muove alla velocità del vento, e che lasciano la parte avversa prigioniera della propria fissità, impantanata nella difesa di un simulacro. (Wu Ming)