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Le Parole e le Cose

Il Colonialismo è un sistema (1956)

di J.P. Sartre

L’importanza di queste pagine di Sartre risiede nell’illustrazione dei meccanismi sociali del dominio coloniale come funzione specifica della società capitalistica. Potremmo dire, come il sottosistema di un sistema. Ne risulta un quadro penetrante, preciso e quasi didascalico, delle connessioni più evidenti e, proprio per questo, più essenziali.

Tuttavia, l’analisi di Sartre è calibrata teoricamente sul caso particolare dell’Algeria e, per quanto vengano sviluppate le linee di un disegno generale, alcuni elementi appartengono esclusivamente a quella storia e connotano in modo peculiare i territori dell’impero coloniale francese.

  Voglio mettervi in guardia contro quella che si può chiamare la <<mistificazione neocolonialista>>.

  I neocolonialisti pensano che ci siano dei buoni coloni e dei coloni molto cattivi. E’ per colpa di questi che la situazione delle colonie si è degradata.  La mistificazione consiste in questo: vi si porta in Algeria, vi si mostra con amabilità la miseria del popolo che è terribile, vi si raccontano le umiliazioni che i cattivi coloni fanno subire ai Musulmani. E poi, quando siete ben bene indignati, si aggiunge: << Ecco perché gli Algerini migliori hanno preso le armi: non ne potevano più.>> Se vi siamo coinvolti, ritorneremo convinti:

1° Che il problema algerino è prima di tutto economico. Si tratta, attraverso oculate riforme, di dare il pane a nove milioni di persone.

2° Che, in seguito, il problema diventa sociale: bisogna moltiplicare medici e scuole.

3° Che è, infine, un problema psicologico: vi ricordate De Man con il suo <<complesso d’inferiorità>> della classe operaia. Egli, in un sol colpo, aveva trovato la chiave del <<carattere indigeno>>: maltrattato, malnutrito, illetterato, l’Algerino ha un complesso di inferiorità di fronte ai suoi padroni. E’ agendo su questi tre fattori che lo si tranquillizzerà: se sazia la sua fame, se ha un lavoro, se sa leggere, non sentirà più la vergogna di essere un sotto-uomo e noi ritroveremo la vecchia fraternità franco-musulmana.

  Ma soprattutto non andiamo a mischiare a tutto questo la politica. La politica è astratta: a cosa serve votare se si muore di fame? Coloro che vengono a parlarci di libere elezioni, di una Costituente, dell’indipendenza algerina, sono provocatori o agitatori che non fanno altro che ingarbugliare la questione.

  Questo l’argomento al quale i dirigenti dell’ F.L.N. hanno risposto: << Anche se fossimo felici sotto le baionette francesi, noi ci batteremmo>>. Hanno ragione. E soprattutto bisogna andare più lontano di loro: sotto le baionette francesi non si può essere che infelici. E’ vero che la maggioranza degli Algerini è in una miseria insopportabile; ma è anche vero che le riforme necessarie non possono essere fatte né dai coloni buoni né dalla stessa <<Metropoli>>, finché pretende di conservare la sovranità in Algeria. Le riforme saranno affare del popolo algerino stesso, quando avrà conquistato la libertà.

  Il fatto è che la colonizzazione non è un insieme di casi fortuiti né il risultato statistico di migliaia di imprese individuali. E’ un sistema che fu impostato verso la metà del XIX secolo, cominciò a portare i suoi frutti verso il 1880, cominciò a declinare dopo la Prima Guerra mondiale e oggi si ritorce contro la nazione colonizzatrice.

  Ecco cosa vorrei mostrarvi, a proposito dell’Algeria, che è, ahimé! l’esempio più chiaro e più leggibile del sistema coloniale. Vorrei farvi vedere il rigore del colonialismo, la sua necessità interna, come doveva condurci esattamente dove siamo e come l’intenzione più pura, qualora fosse nata all’interno di questo cerchio infernale, imputridì immediatamente.

  Perché non è vero che abbia dei coloni buoni e altri cattivi: ha dei coloni, c’est tout. Quando avremo compreso questo, comprenderemo perché gli Algerini hanno ragione ad attaccare anzitutto politicamente questo sistema economico, sociale e politico e perché la loro liberazione e quella della Francia non possono provenire che dalla frantumazione della colonizzazione.

  Il sistema non si è messo da solo al suo posto. A dire il vero né la monarchia di Luglio né la IIa Repubblica sapevano cosa fare dell’Algeria conquistata.

  Si pensò di trasformarla in colonia di popolamento. Bugeaud concepiva la colonizzazione <<alla romana>>. Si sarebbero dati vasti territori ai soldati liberati dall’armata d’Africa. Questo tentativo non ebbe seguito.

  Si vollero scaricare sull’Africa i contadini più poveri di Francia e Spagna; fu creato, per questa disprezzata <<plebaglia>>, qualche villaggio nei dintorni di Algeri, di Costantine, d’Oran. La maggior parte di essa fu decimata dalle malattie. Dopo il giugno 1848, si cercò di installarvi – sarebbe meglio dire: di aggiungervi – degli operai disoccupati la cui presenza inquietava <<le forze dell’ordine>>. Di 20.000 operai trasportati in Algeria, il maggior numero perì per le febbri e il colera; i sopravvissuti riuscirono a farsi rimpatriare.

   In questa forma, l’impresa coloniale restò esitante: si precisò sotto il Secondo Impero, in funzione dell’espansione industriale e commerciale. Una dopo l’altra si vanno creando le grandi compagnie coloniali:

1863: Société de Credit foncier Colonial e de Banque; 1865: Société Marseilleise de Credit; Compagnie de Minerais de fer de Mokta; Société Générale  des transports marittime à vapeur.

  Questa volta è il capitalismo stesso che diviene direttamente colonialista. Jules Ferry si farà il teorico del nuovo colonialismo:

  <<La Francia, che ha sempre traboccato di capitali e li ha esportati all’estero in quantità considerevole, ha interesse a considerare sotto questo aspetto la questione coloniale. E’ per i paesi destinati come il nostro, dalla natura stessa della loro industria, a una grande esportazione, la questione degli sbocchi … Là dove c’è predominio della politica, là c’è il predominio dei prodotti, il predominio economico.>>

  Vedete, non è Lenin che ha definito per primo l’imperialismo coloniale: è Jules Ferry, questa <<grande figura>> della IIIa Repubblica.

  E vedete anche che questo ministro è d’accordo con i <<fellaghas>> (ribelli) del 1956: il proclama <<prima la politica!>> che essi riprenderanno contro i coloni tre quarti di secolo più tardi.

    Prima vincere le resistenze, spezzare i contesti, sottomettere, terrorizzare. Soltanto in seguito si imposterà il sistema economico.

   E di cosa si tratta? Di creare industrie nel paese conquistato? Niente affatto: i capitali di cui la Francia trabocca non vanno a investire in paesi sotto-sviluppati: la resa sarebbe incerta, i profitti sarebbero troppo lontani a venire; occorrerebbe costruire tutto, attrezzare tutto. E, anche se si potesse fare, a che pro creare una concorrenza alla produzione metropolitana? Ferry è molto netto: i capitali non usciranno dalla Francia; saranno semplicemente investiti nelle nuove industrie che venderanno i loro prodotti ai paesi colonizzati. Il risultato immediato fu l’istituzione dell’Unione doganale (1884) che dura ancora oggi. Assicura il monopolio del mercato algerino a un’industria francese svantaggiata sul mercato internazionale dai suoi prezzi troppo elevati.

   Ma a chi dunque questa nuova industria contava di vendere i suoi prodotti? Agli algerini? Impossibile: dove avrebbero preso il denaro per pagare? La contropartita di questo imperialismo coloniale, è che bisogna creare un potere d’acquisto per i coloni. E, ben inteso, sono i coloni che beneficeranno di tutti i vantaggi e che si trasformeranno in eventuali compratori. Da principio il colono è un compratore artificiale, creato pezzo per pezzo al di là dei mari da un capitalismo che cerca nuovi mercati.

  Dal 1900, Peyerimhoff insisteva sul carattere nuovo della colonizzazione <<ufficiale>>: 

  << Direttamente o no, la proprietà del colono gli è venuta gratuitamente dallo Stato oppure egli ha visto giornalmente accordare delle concessioni intorno a lui; sotto i suoi occhi, il governo ha fatto per gli interessi individuali [dei coloni] dei sacrifici sensibilmente più grandi di quelli che consentirebbe in paesi più tradizionali e completamente redditizi .>>

  Qui si marca con nettezza la seconda faccia del dittico coloniale: per essere compratore, il colono deve essere venditore. A chi venderà? Ai francesi della Metropoli. E cosa vendere senza industria? Prodotti alimentari e materie prime. Questa volta, sotto l’egida del ministro Ferry e del teorico Leroy-Beaulieu, lo statuto coloniale è costituito.

  E quali sono i <<sacrifici>> che lo Stato consente al colono, a quest’uomo diletto degli dei e degli esportatori? La risposta è semplice: gli sacrifica la proprietà musulmana.

   Perché si scopre, in effetti, che i prodotti naturali del paese colonizzato affondano le  radici sulla terra e che questa terra appartiene alle popolazioni <<indigene>>. In certe contrade poco popolate, con grandi spazi incolti, il furto della terra è meno manifesto: ciò che si vede è l’occupazione militare, il lavoro forzato. Ma in Algeria, all’arrivo delle truppe francesi, tutte le terre buone erano coltivate. La pretesa <<messa a valore>> di quelle si è fondata dunque su una spoliazione degli abitanti che è stata perseguita lungo un secolo: la storia dell’Algeria è la concentrazione progressiva della proprietà fondiaria europea a spese della proprietà algerina.

  Tutti i mezzi sono stati buoni.

  All’inizio si approfitta del minimo soprassalto di resistenza per confiscare o sequestrare. Bugeaud diceva: Bisogna che la terra sia buona; poco importa a chi appartiene.

  La rivolta del 1871 è servita: si sono prese centinaia di migliaia di ettari ai vinti. 

  Ma questo rischiava di non bastare. Allora abbiamo voluto fare un bel regalo ai Musulmani: abbiamo regalato loro il nostro Codice civile.

  E perché tanta generosità? Perché la proprietà tribale era molto spesso collettiva e la si voleva spezzettare per permettere agli speculatori di ricomprarla poco a poco.

Nel 1873, si incaricarono dei commissari inquirenti di trasformare le grandi proprietà indivise in un puzzle di beni individuali. A ogni eredità, essi formavano dei lotti che assegnavano a ciascuno. Alcuni di questi lotti erano fittizi: nel villaggio di Harrar, per 8 ettari, il commissario inquirente aveva scoperto 55 beneficiari.

  Bastava corromperne uno: reclamava la divisione. La procedura francese, complicata e confusa, rovinava tutti i comproprietari; i mercanti di beni europei raccoglievano il tutto per un boccone di pane.

  Certamente, lo abbiamo visto nelle nostre regioni, contadini poveri, rovinati dalla concentrazione delle terre e dalla meccanizzazione, vendere i loro campi e raggiungere il proletariato urbano: tuttavia, questa legge inesorabile del capitalismo non si accompagnava al furto propriamente detto. Qui, con premeditazione, con cinismo, si è imposto un codice straniero ai Musulmani perché si sapeva che questo codice non poteva applicarsi a loro e non poteva avere altro effetto che annientare le strutture interne della società algerina. Se l’operazione è continuata nel ventesimo secolo con la cieca necessità di una legge economica, è perché lo Stato francese aveva brutalmente e artificialmente creato le condizioni del liberalismo capitalista in un paese agricolo e feudale. Questo non ha impedito, proprio recentemente, a degli oratori all’Assemblea, di vantare l’adozione forzata del nostro Codice per l’Algeria come <<uno dei benefici della civilizzazione francese>>.

  Ecco i risultati di questa operazione:

Nel 1850, il territorio dei coloni era di 115 000 ettari. Nel 1900, di 1 600 000; nel 1950 di 2 703 000.

  Oggi, 2 703 000 ettari appartengono ai proprietari europei; lo Stato francese possiede 11 milioni di ettari sotto il nome di <<terre demaniali>>; si sono lasciati agli Algerini 7 milioni di ettari. In breve, è bastato un secolo per spossessarli di due terzi del loro suolo. La legge della concentrazione ha d’altronde giocato un ruolo contro i piccoli coloni. […] lo Stato francese consegna la terra araba ai coloni per creare loro un potere d’acquisto che permette agli industriali metropolitani di vendere loro i propri prodotti; i coloni vendono ai mercati della metropoli i frutti di questa terra rubata.

  A partire da tutto ciò, il sistema si rafforza da solo; gira in tondo; noi lo seguiamo in tutte le sue conseguenze e lo vediamo divenire sempre più rigoglioso.

  francesizzando e spezzettando la proprietà, si è spezzata l’ossatura dell’antica società tribale senza mettere niente al suo posto. Questa distruzione degli ambienti di vita è stata sistematicamente incoraggiata: in principio perché sopprimeva le forze di resistenza e sostituiva alle forze di resistenza un pulviscolo di individui; in seguito perché creava manodopera (almeno fino a che l’agricoltura non era meccanizzata): solo questa manodopera permette di compensare le spese di trasporto, essa soltanto preserva i margini di profitto delle imprese coloniali di fronte alle economie metropolitane il cui costo di produzione non cessa di abbassarsi. Così la colonizzazione ha trasformato la popolazione algerina in un immenso proletariato agricolo. Si è potuto dire degli Algerini: sono gli stessi uomini del 1830 che lavorano sulle stesse terre; semplicemente, anziché possederle, sono gli schiavi di coloro che le possiedono.

  2° Se, almeno, il furto iniziale non fosse stato di tipo coloniale, forse si sarebbe potuto sperare che una produzione agricola meccanizzata potesse permettere agli Algerini stessi di comprare i prodotti del loro suolo a miglior prezzo. Ma gli Algerini non sono e non possono essere i clienti dei coloni. Il colono deve esportare per pagare le sue importazioni: produce per il mercato francese. Egli è portato dalla logica del sistema a sacrificare i bisogni degli indigeni a quelli dei francesi di Francia.

  Tra il 1927 e il 1932 ha guadagnato 173 000 ettari dei quali più della metà è stata presa ai Musulmani. Ora, i Musulmani non bevono vino. Sulle terre che si rubano loro, coltivavano cereali per il mercato algerino. Questa volta, non è soltanto la terra che si toglie loro; piantandovi delle vigne, si priva la popolazione algerina del suo alimento principale. Un mezzo milione di ettari, ritagliato nelle migliori terre e consacrato interamente alla viticoltura, sono ridotti all’improduttività e come annientati per le masse musulmane. 

  E che dire degli agrumi, che si trovano in tutte le drogherie musulmane. Credete che i fellahs mangino arance come dessert?

  Di conseguenza, la produzione dei cereali arretra di anno in anno verso il sud pre-sahariano. Se ne è trovata di gente, per provare che era un beneficio elargito dalla Francia; se le colture si spostano è perché i nostri ingegneri hanno irrigato il paese fino al confine del deserto. Queste menzogne possono ingannare gli abitanti creduli o indifferenti della Metropoli; ma il fellah sa bene che il sud non è irrigato; se è costretto a viverci, è semplicemente perché la Francia, la sua benefattrice, l’ha scacciato dal nord; le terre buone sono nella pianura, intorno alle città: ai colonizzati è stato lasciato il deserto.

  Il risultato è una degradazione continua della situazione: da settanta anni la coltivazione dei cereali non è progredita. Durante questo periodo la popolazione algerina è triplicata. E se si vuole annoverare questa alta natalità tra le buone azioni della Francia, ricordiamoci che sono le popolazioni più povere che hanno la più alta natalità. Chiederemo agli Algerini di ringraziare il nostro paese perché ha permesso ai loro bambini di nascere nella miseria, vivere schiavi e morire di fame? […] per coloro che dubitano della dimostrazione, ecco le cifre ufficiali: 

Nel 1871, ogni abitante disponeva di 5 quintali di cereali;

Nel 1901, di 4 quintali;

Nel 1940, di 2q e ½;

Nel 1945, di 2 quintali. 

  E la sola ragione di questa pauperizzazione progressiva, è che la bella agricoltura coloniale si è installata come un cancro nel bel mezzo del paese e lo rode tutto.

  3° La concentrazione delle proprietà comporta la meccanizzazione dell’agricoltura. La Metropoli è incantata dalla vendita dei trattori ai coloni. Mentre la produzione del Musulmano, confinato in terre cattive, è diminuita di un quinto, quella dei coloni si accresce ogni giorno, a loro esclusivo profitto […]

Ora, la meccanizzazione genera la disoccupazione tecnologica: gli operai agricoli sono rimpiazzati dalla macchina. Ciò sarebbe di importanza considerevole ma limitata se l’Algeria avesse un’industria. Ma il sistema coloniale lo impedisce. I disoccupati affluiscono verso le città dove li si occupano per qualche giorno in lavori di sistemazione e poi restano là, senza sapere dove andare: questo sottoproletariato disperso si accresce di anno in anno. Niente mostra meglio il rigore crescente del sistema coloniale: si comincia per occupare il paese, poi si prendono le terre e si sfruttano gli antichi proprietari pagandoli con tariffe da carestia. E in seguito, con la meccanizzazione, questa mano d’opera a buon mercato diviene ancora troppo cara; si finisce per togliere agli indigeni perfino il diritto di lavorare. All’algerino, a casa sua, in un paese in piena prosperità non resta che morire per la scarsità. 

  Quelli che, da noi, osano lamentarsi che gli algerini vengono a prendere il posto dei lavoratori francesi, sanno che l’80% di essi inviano la metà della loro paga alla loro famiglia, e che un milione e mezzo di persone vivono esclusivamente del denaro che inviano loro 400 000 esiliati volontari? Ed anche questa è la conseguenza rigorosa del sistema: gli algerini sono costretti a cercare in Francia gli impieghi che la Francia rifiuta loro in Algeria.  

  Per il 90% degli algerini, lo sfruttamento coloniale è metodico e rigoroso: espulsi dalle loro terre, confinati su suoli improduttivi, costretti a lavorare per salari derisori, il timore della disoccupazione scoraggia le loro rivolte; gli scioperanti hanno paura che si usino i disoccupati per fare dei “sindacati gialli”. Di colpo il colono è il re, egli non accorda niente di ciò che la pressione delle masse, in Francia, ha potuto strappare ai padroni: niente scala mobile, niente contrattazione collettiva, niente assegni familiari, niente mense, niente alloggi operai. Quattro muri di fango secco, dei fichi, dieci ore di lavoro al giorno: qui il salario è veramente e ostensibilmente il minimo necessario al recupero delle forze per il lavoro. 

  Ecco il quadro. Possiamo trovare, almeno, una compensazione a questa miseria sistematica creata dagli usurpatori europei, in ciò che viene chiamato “beni non direttamente misurabili”: sistemazione del territorio e lavori pubblici, igiene e istruzione? Se noi avessimo questa consolazione, forse si potrebbe mantenere qualche speranza: forse delle riforme giudiziosamente scelte … Ma no: il sistema è spietato. Poiché la Francia ha, fin dal primo giorno, spossessato e respinto gli algerini, poiché essa li ha trattati come un blocco inassimilabile, tutta l’opera francese in Algeria è stata compiuta a esclusivo profitto del colono. 

  Non parlo neanche degli aerodromi e dei porti. A che cosa servono al Fellah, se non per andarci a crepare di miseria e di freddo?

  Ma le strade? Esse collegano le grandi città alle proprietà europee e alle zone militari. Non sono state fatte per permettere agli algerini di raggiungere le loro case […]

 Quanto alla nostra famosa cultura, chi sa se veramente gli algerini erano così tanto desiderosi di acquisirla? Ma ciò che è sicuro, è che noi la abbiamo loro rifiutata. Non direi che noi siamo stati altrettanto cinici dello Stato del Sud degli USA, dove una legge, conservata fino all’inizio del XIX secolo, vietava, sotto pena d’ammenda, d’insegnare a leggere agli schiavi neri. Ma infine noi abbiamo voluto fare dei nostri “fratelli musulmani” una popolazione di analfabeti. Si conta, ancora oggi, l’80% di illetterati in Algeria. Passi ancora che avevamo interdetto loro l’uso della nostra lingua. Ma fa parte necessariamente del sistema colonialista che esso tenti di sbarrare la strada della Storia ai colonizzati; come le rivendicazioni nazionali in Europa si sono sempre appoggiate sull’unità della lingua, così si è rifiutato ai mussulmani l’uso del proprio linguaggio. Dopo il 1830, la lingua araba è considerata in Algeria come una lingua straniera; si parla ancora, ma non è più lingua scritta che virtualmente. Questo non è tutto: per mantenere gli Arabi nello sbriciolamento, l’amministrazione francese ha confiscato loro la religione; essa recluta gli addetti al culto islamico in mezzo a personaggi da essa creati e al suo soldo. Essa ha mantenuto le più basse superstizioni, perché esse disuniscono. La separazione della Chiesa e dello Stato è un privilegio repubblicano, un bel lusso per la Metropoli. In Algeria, la Repubblica francese non può permettersi di essere repubblicana. Essa mantiene l’incultura e le credenze della feudalità, ma sopprimendo le strutture e i costumi che permettono a una feudalità vivente di essere, malgrado tutto, una società umana; essa impone un codice individualista e liberale per rovinare i contesti e gli sviluppi della collettività algerina, e mantiene dei reucci che da essa ricevono il loro potere e che governano per lei. In una parola, essa fabbrica degli “indigeni” attraverso un doppio movimento che li separa dalla collettività arcaica dando loro, o conservando loro, nella solitudine dell’individualismo liberale, una mentalità in cui l’arcaismo non può che perpetuarsi in relazione con l’arcaismo della società. Essa crea delle masse, ma impedisce loro di divenire un proletariato cosciente mistificandole attraverso la caricatura della propria ideologia.  

  E qui torno al nostro interlocutore iniziale, al nostro realista dal cuore tenero che ci proponeva riforme massicce dicendo <<L’économie d’abord!>>. Gli rispondo: Sì, il fellah muore di fame, sì, manca di tutto, di terre, di lavoro e di istruzione; sì le malattie lo opprimono; sì, la situazione presente in Algeria è paragonabile alle peggiori miserie dell’Estremo Oriente. E pertanto è impossibile cominciare con le trasformazioni economiche perché la miseria e la disperazione degli Algerini sono l’effetto diretto e necessario del colonialismo e non saranno soppresse finché il colonialismo durerà. E’ quello che sanno tutti gli Algerini coscienti. E tutti sono d’accordo con le parole di un Musulmano: <<Un passo avanti, due passi indietro. Voilà la riforma coloniale.>>

   Il fatto è che il sistema annienta da solo (par lui même) e senza sforzo ogni tentativo di sistemazione (aménegement): non può mantenersi se non diventando ogni giorno più duro, più inumano.

  Mettiamo che la Metropoli proponga una riforma. Tre casi sono possibili:

  1° la riforma torna a vantaggio del colono e solo del colono. 

  Per accrescere la resa delle terre, si sono costruiti sbarramenti e tutto un sistema di irrigazione. Ma capite che l’acqua non può che alimentare le terre a valle. Ora, queste terre sono sempre state le migliori d’Algeria e gli Europei se le sono accaparrate. […] Andate dunque ad irrigare il Sud présaharien!

  2° Si snatura, in modo da renderla inefficace. Lo statuto dell’Algeria è mostruoso in se stesso. Il governo francese sperava di mistificare le popolazioni musulmane concedendo questa Assemblea a due collegi? Non gli si è lasciato il modo di portare a termine la sua mistificazione. I coloni non hanno voluto lasciare all’indigeno la possibilità di essere mistificato. Era già troppo per loro: hanno trovato più semplice truccare pubblicamente le elezioni. E dal loro punto di vista avevano perfettamente ragione: quando si assassina la persona, è meglio prima imbavagliarla.

    La si lascia in sonno con la complicità dell’amministrazione.

  […] E, quando parliamo di <<sistema coloniale>>, bisogna intendersi: non si tratta di un meccanismo astratto. Il sistema esiste, funziona; il ciclo infernale del colonialismo è una realtà. Ma questa realtà si incarna in un milione di coloni, figli e nipoti di coloni, che sono stati modellati dal colonialismo e che pensano, parlano e agiscono secondo i medesimi principi del sistema coloniale.

  Perché il colono è fabbricato come l’indigeno: è fatto per la sua funzione e per i suoi interessi. Legato alla metropoli mediante il patto coloniale, è arrivato a commercializzare per essa, derrate alimentari del paese colonizzato, in cambio di grandi profitti. Egli ha anche creato nuove colture che riflettono i bisogni della metropoli molto di più di quelle degli indigeni. E’ dunque doppio e contraddittorio: ha la sua <<patria>>, la Francia, e il suo <<paese>>, l’Algeria. In Algeria rappresenta la Francia e non vuole avere rapporti che con lei. Ma i suoi interessi economici lo portano a opporsi alle istituzioni politiche della sua patria. Le istituzioni francesi sono quelle di una democrazia borghese fondata sul capitalismo liberale. Esse comportano il diritto di voto, di associazione e la libertà di stampa.

  Ma il colono, i cui interessi sono opposti a quelli degli Algerini e che non può fondare lo sfruttamento che sull’oppressione pura e semplice, non può ammettere questi diritti che per se stesso (pour lui) e per goderne in Francia, tra i francesi. In tal misura detesta l’universalità – almeno formale – delle istituzioni metropolitane. Precisamente perché si applicano a tutti, l’Algerino potrebbe reclamarle. Una delle funzioni del razzismo, è di compensare l’universalismo latente del liberalismo borghese: poiché tutti gli uomini hanno gli stessi diritti, si farà dell’Algerino un sotto-uomo. E questo rifiuto delle istituzioni della propria patria, quando i suoi concittadini vogliono estenderle al <<proprio>> paese, determina in ogni colono una tendenza secessionista. Il presidente dei comuni d’Algeria, non ha dichiarato, qualche mese fa: <<Se la Francia è debole (défaillante), noi la rimpiazzeremo?>>

   Ma la contraddizione acquista tutto il suo significato quando il colono spiega che gli Europei sono isolati in mezzo a dei Musulmani e che il rapporto di forze è di nove a uno. Precisamente perché sono isolati, rifiutano ogni statuto che darebbe il potere a una maggioranza. E, per la medesima ragione, non hanno altra risorsa che conservarsi con la forza.

  Ma proprio a causa di ciò – e perché i rapporti di forza non possono che ritorcersi contro di loro – hanno bisogno della potenza metropolitana, ovvero dell’Armata francese ( Armé française). Così questi separatisti sono anche iperpatrioti. Repubblicani in Francia – nella misura in cui le nostre istituzioni permettono loro di costituire qui da noi un potere politico – sono in Algeria fascisti che odiano la repubblica e che amano appassionatamente l’Armata repubblicana.

Possono essere altrimenti? No. Non finché saranno coloni. E’ successo che degli invasori, installati in un paese, si mischiano alla popolazione autoctona e finiscono per formare una nazione: è allora che si vedono nascere – almeno per certe classi – interessi nazionali comuni. Ma i coloni sono degli invasori che il patto coloniale ha completamente tagliato fuori dai colonizzati: dopo un secolo che occupiamo l’Algeria, non si segnalano quasi matrimoni misti né amicizie franco-musulmane. Come coloni, il loro interesse è rovinare l’Algeria a profitto della Francia.  Come Algerini, sarebbero obbligati, in una maniera o nell’altra, e per i loro propri interessi, a interessarsi allo sviluppo economico – e di conseguenza culturale – del paese.

  In tutto questo tempo, la Metropoli è presa in trappola dal colonialismo. Mentre afferma la sua sovranità sull’Algeria, è compromessa dal sistema, ossia da dei coloni che negano le sue istituzioni; e il colonialismo obbliga la Metropoli a inviare alla morte dei francesi democratici per proteggere la tirannia che dei coloni antidemocratici esercitano sugli Algerini. Ma là ancora la trappola funziona e il cerchio si chiude: la repressione che esercitiamo a loro profitto li rende ogni giorno più odiosi; nella medesima misura in cui li proteggono, le nostre truppe accrescono il pericolo che corrono, cosa che rende la presenza dell’Armata tanto più indispensabile. La guerra costerà quest’anno, se la si continua, più di 300 miliardi, cifra che corrisponde alla totalità delle rimesse algerine.

  Arriviamo al punto in cui il sistema si distrugge da solo: le colonie costano più di quanto rendono.

Distruggendo la comunità musulmana, rifiutando l’assimilazione dei Musulmani, erano coerenti con se stessi; l’assimilazione supponeva che si garantissero agli Algerini tutti i diritti fondamentali, che si facessero beneficiare delle nostre istituzioni di sicurezza e d’assistenza, che si facesse posto, nell’Assemblea metropolitana, a cento deputati d’Algeria, che si assicurasse ai Musulmani un livello di vita uguale a quello dei Francesi operando una riforma agraria e industrializzandone il paese. L’assimilazione spinta fino in fondo, era semplicemente la soppressione del colonialismo. Come volerla ottenere dal colonialismo stesso? Ma poiché i coloni non hanno nient’altro da offrire ai colonizzati che la miseria, poiché li tengono a distanza, poiché ne fanno un blocco inassimilabile, questa attitudine radicalmente negativa deve avere per necessaria contropartita una presa di coscienza delle masse. La liquidazione delle strutture feudali, dopo aver indebolito la resistenza araba, ha per effetto quello di facilitare la presa di coscienza collettiva: nuove strutture cominciano a nascere. E’ per reazione alla segregazione e nella lotta quotidiana che si è scoperta e forgiata la personalità algerina. Il nazionalismo algerino non è la semplice reviviscenza di antiche tradizioni, di antichi legami: è l’unica uscita di cui gli Algerini dispongono per far cessare il loro sfruttamento. Abbiamo visto Jules Ferry dichiarare alla camera: << Là dove è il predominio politico, là è il predominio economico …>> Gli Algerini muoiono per il nostro predominio economico, ma traggono profitto da questo insegnamento: per sopprimerlo è il nostro predominio politico che hanno deciso di attaccare. Così i coloni hanno formato essi stessi i loro avversari; hanno mostrato agli esitanti che nessuna soluzione era possibile al di fuori di una soluzione di forza..

  L’unico beneficio del colonialismo, è che deve mostrarsi intransigente per durare e che prepara la propria sconfitta attraverso la propria intransigenza.

  Noi, Francesi della Metropoli, non abbiamo che una lezione da trarre da questi fatti: il colonialismo sta per distruggersi da solo. Ma appesta ancora l’atmosfera: è la nostra vergogna, si beffa delle nostre leggi o le caricaturizza; ci infetta del suo razzismo,  […] obbliga i nostri giovani a morire malgrado loro (malgré eux) per i principi nazisti che combattiamo da dieci anni; tenta di difendersi suscitando un fascismo da noi, in Francia. Il nostro ruolo è aiutarlo a morire. Non solo in Algeria, ma ovunque esiste. Coloro che parlano di abbandono sono degli imbecilli: non c’è da abbandonare quello che non abbiamo mai avuto. Si tratta, al contrario, di costruire con gli Algerini nuove relazioni tra una Francia libera e una Algeria liberata. Ma, soprattutto, non lasciamoci distrarre dal nostro compito dalla mistificazione riformista. Il neocolonialista è uno sciocco che crede ancora che si possa sistemare il sistema coloniale – o un maligno che propone delle riforme perché sa che sono inefficaci. Verranno a tempo debito queste riforme. È il popolo algerino che le farà. La sola cosa che noi possiamo e dovremmo tentare – ma è l’essenziale oggi – è lottare al suo fianco per liberare contemporaneamente (à la fois) gli Algerini e i Francesi dalla tirannia coloniale.