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Le Parole e le Cose

Contro il politicamente corretto, contro-discorso 1

di Rosa Rossa

Persona di colore

Questo non è un saggio. Questo non è un aforisma. Questo non è un proclama. Questo è un contro-discorso. Non sarà specialistico, non sarà dotto, non sarà forbito, e politicamente sarà molto scorretto.

Dunque

questa mattina ho conosciuto Henry, un giovane nero nigeriano. Stazionava infreddolito davanti all’ingresso del supermercato. Mani in tasca, strette le spalle dentro il misero giubbotto, indifferente alle pungenti raffiche della tramontana: Buongiorno… Buongiorno… Non tutti rispondono al suo saluto. Più tardi mi dirà, in buon italiano, di avere 26 anni, di essere in Italia da sei, di aver seguito corsi di lingua e un corso di formazione che ha fatto di lui un provetto saldatore. Saldatore disoccupato. Così eccolo qui, come tanti suoi simili, ad aspettare un’elemosina. 

Ora, per i “politicamente corretti”, Henry non è un nero africano immigrato né era un nero africano migrante quando si trovava nel barcone a tentare la traversata. In entrambe le situazioni per i “corretti” il giovane nigeriano era ed è una persona migrante di colore. 

La stessa politesse (come direbbero i compagni francesi) viene naturalmente elargita a tutti gli immigrati e migranti da qualunque paese arrivino, ma è con quel “di colore”  che, mascherato da compassionevole gesto (poverini, mica hanno colpa loro se sono neri!) e da civile compiaciuto rispetto (Come sono buoni i bianchi! Marco Ferreri, 1988), il politicamente corretto (politically correct per dirla nella lingua che lo ha partorito e sparpagliato in ogni dove, specialmente nei paesi “civili”) tocca lo zenith nel far piazza pulita della storia, addomestica la memoria collettiva, la candeggia e la pacifica.        

 Nell’ottobre del 1966 ad Oakland, California, due giovani neri (Niggers) Huey Percy Newton e Bobby George Seale, studenti e agitatori, si incontrarono in un centro di assistenza sociale e scrissero il programma che diede vita al Black Panther Party for Self-Defense (Partito delle Pantere Nere per l’autodifesa), di cui avrebbero fatto parte anche Angela Davis e George Jackson, divenendo due delle figure più rappresentative¹. 

Già da tempo la parola d’ordine Black Power aveva galvanizzato la comunità nera e allertato l’FBI, ma furono le Pantere Nere ad essere definite dal famigerato Bureau “la più grande minaccia alla sicurezza interna degli Stati Uniti”. 

Già nel 1955 a Montgomery, una negra, Rosa Parks, aveva rifiutato di cedere il posto a un bianco nell’autobus sul quale viaggiava.  Arrestata e condotta in carcere sarebbe diventata “La madre del movimento dei diritti civili” (The Mother of the Civil Rights Movement)

Già un Nigger, Richard Wright, aveva sobillato le autocoscienze nere e scosso quelle bianche, anche in Europa, con i suoi romanzi. I figli dello zio Tom (1938) – Paura (1940) – e il più noto Ragazzo negro (1945) nei quali il negro si autodefinisce Nigger con fierezza se pur raccontando sofferenze e umiliazioni e discriminazioni e violenze.

Già Franz Fanon aveva pubblicato alcune delle sue opere più esplosive: Pelle nera, maschere bianche (1952), I dannati della terra (1961), Il negro e l’altro (1965) 

Già dai primi anni Sessanta Martin Luther King con i suoi seguaci aveva più volte marciato per i diritti civili, vittima poi del piombo assassino (1968)

Già Malcon X aveva dettato ad Alex Haley la propria autobiografia (1965) morendo assassinato nello stesso anno.

Pertanto il Black Panther Party può essere ritenuto il frutto di una pianta dalle radici rizomatiche assai estese e che soltanto la parola Nigger ci indurrebbe a seguire, giù giù fino alle piantagioni di contone, di canna da zucchero; fino alle coste africane a riascoltare le sofferenze dei negri ammassati sulle navi negriere; e poi su su fino ai vari bronx metropolitani; fino ai macelli di Chicago; fino allo sfruttamento nelle tante industrie del nord; fino a sentir risuonare l’ultimo colpo sparato dall’ultimo poliziotto White contro l’ultimo Dirty Nigga lo sporco negro. E fino agli ultimi disperati negri africani annegati nel Mare Nostro. 

Persona di colore. C’è, in questa smorta borghesuccia espressione, qualcosa di classista, di subdolamente antipopolare. Ricordo ancora mia nonna e le sue amiche dire, quando ricordavano i soldati americani arrivati fin nelle loro case (la seconda guerra mondiale era finita da pochi anni) “qualcuno era proprio nero, nero come la pece”  ( Che roba contessa!… )

persóna s. f. dal lat. persōna, voce di origine probabilmente etrusca, che significava propriamente «maschera teatrale».

Così il dizionario della lingua italiana. 

A noi il compito di smascherare la rimozione.

Sì, perché dietro una maschera può esserci chiunque, l’anonimato è assicurato (ah! la privacy!) e insieme all’anonimato viene blandita anche la nostra tranquillità. Così quella che abbiamo di fronte è una persona come tante sul palcoscenico delle nostre giornate, una persona senza storia, senza niente da raccontare o – non sia mai! – da rivendicare. Chi ha scritto la parte che è chiamata a recitare?

Prendiamo, solo per fare un altro esempio, qualcuno che finisce in carcere, non è più un uomo incarcerato, una donna chiusa in gattabuia, con il “politicamente corretto” sono diventati persone detenute uomo o donna che sia. Di cosa dovrebbero lamentarsi?

Ma, l’accoppiata persona di colore contiene in filigrana qualcosa di unico, ovvero l’inconfondibile griffe di un perbenistico razzismo bianco, paternalisticamente camuffato. Come se tutti gli altri abitanti del nostro pianeta non avessero i pigmenti che ne colorano la pelle: gialla, bianca, rosea, bruna, color caffelatte, rossiccia, grigiastra, ambrata, solo ai neri è stato affibbiato quel di colore. Che sia perché se ne stiano al loro posto, contentandosi di qualche luccicante specchietto allorché uno di colore come loro, però ben bene assimilato, è riuscito a salire sull’ascensore sociale fino alle altezze  del successo? O forse perché quell’ormai lontano Black Power, forte della sua pellaccia nera e della sua mai sopita autocoscienza afroamericana, potrebbe rialzare la testa e tornare a presentare il conto.


¹ Dobbiamo ricordare alcune loro importanti opere. Mi limito ai soli titoli italiani, alcuni riediti: A. Davis: La rivolta nera (1972); Autobiografia di una rivoluzionaria (1975);Donne razza e classe (1981);  Bianche e nere ( 1985);Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale; La libertà è una lotta costante: Ferguson, la Palestina e le basi per un movimento (2018). J. Jackson: I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere (1971); Col sangue agli occhi. Il “fascismo americano” e altri scritti (1972)